Continuano ad aumentare “i suicidi in divisa”

Continuano ad aumentare "i suicidi in divisa" Continuano ad aumentare “i suicidi in divisa”  – Nel 2022 ci sono già stati 50 casi in 9 mesi. I dati sono curati dall’Osservatorio Suicidi in Divisa: l’anno scorso i suicidi erano stati 57, nel 2020 sei in meno e l’anno prima ben 69. E dire che l’Italia, tra i Paesi Ocse, registra uno dei più bassi livelli di mortalità per suicidio. Il curatore delle statistiche Iafrate: “I fattori patologici sono riconducibili, a mio avviso, ad alcune gravi e anacronistiche storture presenti nel mondo militare e delle forze di polizia: trasferimenti di sede, giudizi caratteristici, sanzioni disciplinari e benemerenze”.

Un fenomeno in crescita

La preoccupazione dei sindacati: “Età media alta, organici ridotti e turni massacranti. E poi pattuglie in strada più stressanti dopo il lockdown, la gente è più aggressiva”. Tra il 1993 e il 2009 la mortalità è diminuita significativamente da 8,3 a 6,7 suicidi ogni centomila abitanti, stando ai dati Istat. Se non fosse che il numero dei “suicidi in divisa” ha un trend preoccupante. La contabilità stabilisce che tra il personale delle forze armate e di sicurezza i suicidi sono in aumento. Nell’anno in corso siamo già a cinquanta: dieci carabinieri, di cui quattro forestali, sei finanzieri, tre militari dell’Esercito, tre agenti della Polizia Penitenziaria (più un tentativo di suicidio); diciotto appartenenti alla Polizia di Stato, di cui uno da poco in pensione (più tre tentativi di suicidio), cinque agenti della Polizia Locale, due guardie giurate, due vigili del fuoco e un militare dell’Aeronautica.

L’anno scorso erano stati 57, nel 2020 sei in meno e l’anno prima ben 69. Una media alta di cittadini in uniforme che si tolgono la vita. Solo nel mese di settembre un giovane poliziotto si è tolto la vita all’interno del Cpr di via Corelli a Milano, sparandosi con la pistola d’ordinanza di un collega all’interno dell’ufficio immigrazione presente nel Cpr (Centro per il rimpatrio), seguito dal suicidio di una poliziotta di 46 anni, lasciando un figlio di 5 anni e infine sempre con una pistola di ordinanza il suicidio del maresciallo di 39 anni. Vicende agghiaccianti, per di più verificatesi in un breve lasso di tempo.

Perché tanti suicidi? Lo abbiamo chiesto a Elena Ricci

Perché succede tutto questo in uno Stato di diritto e con la presenza dei sindacati a tutela delle forze dell’ordine? A queste e alle seguenti domande risponderà Elena Ricci, pedagogista e giornalista esperta in forze dell’ordine e difesa.

“Rispondo a questa domanda non da giornalista ma da studiosa del fenomeno dei suicidi in divisa. Dunque, la mia non sarà una critica, bensì una constatazione fatta sul campo durante il mio percorso di studi che ho terminato con una tesi di laurea incentrata proprio sui suicidi tra gli appartenenti alle forze dell’ordine. L’esistenza dei sindacati non è di per sé garanzia affinché questo infausto fenomeno sia arginato.

Sono pochi, ma davvero pochi, i sindacati sia militari che di polizia che si occupano assiduamente del fenomeno suicidi e non perché questo sia argomento caldo, ma perché hanno attivato delle serie politiche interne volte alla prevenzione e alla ricerca di soluzioni efficaci con i vertici. Tra questi mi permetto di citare il Mosap per la Polizia di Stato e il Nuovo Sindacato Carabinieri per i sindacati militari. Entrambi hanno sottoscritto convenzioni con professionisti esterni alle rispettive amministrazioni, per permettere ai propri iscritti (poliziotti e carabinieri) di chiedere aiuto e rivolgersi a esperti del settore in caso di disagio”.

Questo perché, parlare con una persona esterna all’amministrazione, magari aiuta l’appartenente a non sentirsi inadeguato o, peggio, etichettato. Perché c’è un concetto che forse ancora negli ambienti è poco chiaro: vivere un momento di disagio non è un fallimento. Parlare con uno psicologo dovrebbe essere normale.

Perché questo aumento vertiginoso proprio tra chi indossa una divisa?

“I fattori sono diversi. Primo fra tutti la disponibilità dell’arma in dotazione. Potrebbe sembrare un parametro scontato, ma non lo è. Avere la disponibilità dell’arma, in un momento di blackout totale dovuto alla disperazione, permette di mettere fine a queste sofferenze in pochi attimi. Una frazione di secondo, si preme il grilletto, ed è finita. Altri fattori che possiamo prendere in considerazione, abbracciano sia la sfera privata che lavorativa. Ovviamente relegare ogni singolo fenomeno ai cosiddetti motivi famigliari, è sbagliato oltre che inesatto. Ci vuole coraggio lo so, ma bisogna dire le cose come stanno.

Non tutti i suicidi maturano per problemi personali. Molti avvengono a causa di problemi insorti nell’ambiente di lavoro: problemi di tipo gerarchico, faide tra colleghi magari per motivi sindacali; mancati trasferimenti, lontananza dalla famiglia, turni massacranti, assenza di tutele e cosiddetti “atti dovuti”, ossia iscrizione nel registro degli indagati per fatti avvenuti durante il servizio. Potrei continuare. I problemi, come vede, sono tanti. Ma ammetterlo significherebbe assumersi qualche responsabilità”.

Come prevenire ulteriori tragedie?

“Gli errori nel tempo sono stati tanti. Il primo, l’indifferenza e la superficialità con le quali è stato affrontato il fenomeno. I sindacati, come ho detto prima, in pochi si sono davvero interessati al problema, altri invece hanno iniziato ad affrontare l’argomento quando si è arrivati al punto in cui fare finta di nulla non era più possibile. I media hanno dato poco spazio al fenomeno, ovviamente fa più notizia il poliziotto o il carabiniere a processo, che il povero disgraziato che la fa finita. Quanto agli ambienti militari e di polizia, ci vorrebbe maggiore comprensione, una comunicazione più circolare tra base e vertici e l’attivazione di percorsi e sportelli psicologici e pedagogici che, se utilizzati dal personale, non devono pregiudicarlo agli occhi dell’amministrazione.

Quanto alla politica, invece, bè… siamo stati governati per anni da personaggi che si sono fatti promotori di una caccia alle streghe nei confronti degli uomini e le donne in divisa: legge sul reato di tortura, proposta di identificativi sui caschi del reparto mobile, per non parlare di chi, oggi, dall’opposizione, senza alcuna competenza in materia di sicurezza, avanza ridicole proposte sul riconoscimento delle forze dell’ordine durante i servizi di ordine pubblico. Voglio augurarmi che con questo nuovo Esecutivo qualcosa possa cambiare e devo dire che i primi segnali positivi li ho visti.

Da un presidente della Camera in passato che ha esordito il 2 giugno col pugno chiuso, a un Ministro della Difesa che si è inchinato dinanzi al Milite Ignoto. Forse da parte dello Stato sta tornando qualcosa che per molto tempo si era perso nei confronti delle divise: il rispetto”.

Da queste parole forse il 4 novembre dovrebbe essere non solo in ricordo dell’unità nazionale e delle forze armate ma anche in ricordo di un valore fondamentale della nostra Costituzione: i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, visto che, tra queste funzioni, non vi è solo la difesa della Patria ma anche la difesa di chi la difende.

Rita Lazzaro