Partecipazione: e Sbarra (CISL) si scoprì “camerata”

Partecipazione: e Sbarra (CISL) si scoprì camerata

Partecipazione: e Sbarra (CISL) si scoprì “camerata” – “La partecipazione è la via maestra per elevare salari, radicare investimenti e occupazione, rilanciare formazione e competenze esercitare controllo su salute e sicurezza, sviluppare la crescita reale e arginare la finanziarizzazione dell’economia, aumentare quelle buone flessibilità che rendano più resiliente, competitivo, produttivo il tessuto produttivo”.

Sono parole del segretario generale della Cisl, Luigi Sbarra, durante la presentazione, lo scorso 1° febbraio, di una proposta di legge sulla partecipazione dei lavoratori al capitale, alla gestione e ai risultati dell’impresa, supportata da quasi 400.000 firme.

Il segretario dell’importante sindacato ha proseguito affermando che: “mai in settant’anni è stata approvata una legge attuativa dell’articolo 46 della Carta Costituzionale, proprio quello che intendiamo fare con la nostra proposta…”

A parte che gli anni sono ormai oltre 75, non si può che sottoscrivere un progetto così rivoluzionario. Rivoluzionario in assoluto, soprattutto se si considera l’organizzazione che ora lo propone, ma non certo nuovo.

La partecipazione degli utili della RSI

Sempre in febbraio, ma il 12, ed era il 1944, fu emanata nella Repubblica Sociale Italiana, la legge sulla socializzazione delle imprese, che prevedeva la partecipazione dei lavoratori agli utili e alla gestione delle aziende con almeno un milione di lire di capitale o almeno cento dipendenti.

La legge conteneva anche altre misure, come la nazionalizzazione delle imprese strategiche per il corretto funzionamento della vita sociale, ma l’aspetto preminente, originale, sicuramente rivoluzionario, fu proprio la partecipazione attiva dei lavoratori alla vita dell’impresa.

Era il coronamento del progetto corporativo, con cui il Fascismo, attraverso una nuova sintesi tra Capitale e Lavoro, aveva tracciato la propria alternativa alla lotta di classe.

Gli eventi bellici limitarono le possibilità di una applicazione piena della legge, ma i concetti che ne erano alla base avrebbero meritato ben maggior fortuna. E questo lo compresero perfettamente gli antifascisti del CLN, i quali si affrettarono ad inserire il provvedimento nella lista dei primi da abrogare a guerra finita.

I comunisti contro la socializzazione

Promotore di questa frettolosa rimozione fu il comunista Mario Berlinguer, massone – ça va sans dire – e padre del più famoso Enrico, futuro segretario del PCI. L’idea di una alternativa al capitalismo diversa dal comunismo non doveva avere diritto di cittadinanza nell’Italia “liberata”.

Successivamente, tuttavia, la variegata formazione dell’Assemblea Costituente fece sì che alcune componenti, principalmente di area cattolica e nazionale, riconoscendo la validità dell’intuizione mussoliniana, sostenessero l’introduzione dei suoi principi nella Carta costituzionale, all’art.46, che infatti recita: Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende.

Solo l’MSI provò a far attuare la normativa

Se il PCI non riuscì ad evitare l’inserimento in Costituzione della socializzazione, certamente fu molto abile a far cadere nell’oblio questo articolo che, come giustamente afferma Sbarra, non ha mai conosciuto una legge attuativa, nonostante ben 8 proposte promosse dal Movimento Sociale Italiano dal 1955 al 1991.

Ora che il dogma capitalista è più che mai in crisi e mostra tutti i suoi limiti a livello planetario, l’alternativa rivoluzionaria del corporativismo può trovare nuovi spazi. Solo all’interno di un ordinamento corporativo, infatti, la socializzazione può raggiungere la sua piena realizzazione.

Ben venga, quindi, la proposta di Sbarra e della CISL.

Ma… l’ANPI non è ancora insorta contro questo rigurgito di fascismo?

Raffaele Amato

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