I rider figli del capitalismo terminale

I rider figli del capitalismo terminaleI rider figli del capitalismo terminale – “Perché io posso anche mangiare pasta e aria, ma i miei figli no. Non lo permetterei mai” Sono queste le parole di Paolo (il nome è di fantasia perché la persona che ha scelto di portare la sua testimonianza ha chiesto di mantenere l’anonimato per ragioni professionali) che per mandare avanti la famiglia lavora come rider in Friuli Venezia Giulia.

Fa parte del cosiddetto gruppo degli italiani, che fa concorrenza – leale, normale – alla più folta rappresentanza di fattorini di origine straniera.

Però la storia del trentasettenne è diversa. “Non faccio il rider per arrotondare. Io questo lavoro lo devo fare per sopravvivere. E senza lo stipendio di mia moglie non so nemmeno se riuscirei a sbarcare il lunario”.

Tutto ha inizio durante la pandemia. Non ancora nella fase di lockdown ma delle regioni a colori.

Nell’autunno del 2020 anche il Friuli Venezia Giulia precipita in zona arancione a causa della seconda ondata, provocando così la chiusura dei ristoranti.

“Mi serviva un lavoro, in pochi giorni ho deciso e ho preso la bicicletta per portare il cibo a domicilio” racconta oggi Paolo. Le prime pedalate lo portano a Trieste.

“Da quel giorno ho girato quasi tutti i marchi: Deliveroo, Glovo, Uber. Tutti. E non ho un contratto vero e proprio. Sono una partita Iva”. Paolo, quindi, fa parte della categoria più svantaggiata, quella legata solo al trillo dell’algoritmo che decide dove devi andare e in quanto tempo devi arrivare alla porta del cliente. Zero tutele, zero protezioni.

Sfruttamento e pericolo di vita

L’ uomo non prova alcuna vergogna nel raccontarsi.

“Il mio stipendio medio, nei periodi normali arriva a circa 160 euro a settimana. Ripeto, senza mia moglie non credo ce la farei”.

A una paga misera si aggiunge un problema che non è certo di minor gravità tutt’altro: “È il lavoro ad essere a tratti tremendo – confessa -. Io sono di fatto sempre sulla strada, non ci sono grandi soste: con la pioggia, con la bora di Trieste, con il freddo di altre zone della regione che ho frequentato. Alla lunga non si resiste, ma devo farlo per i miei due figli. E le persone ci chiedono di essere sempre più veloci, di correre di più”.

Le persone di cui parla Paolo sono i clienti, abituati alla comodità della consegna a domicilio e sempre più pretenziosi.“Dobbiamo stare attenti, perché rischiamo ogni giorno di farci male davvero”.

“A dicembre del 2021 – racconta – c’era una pioggia incessante, il mio impermeabile non reggeva. In quel momento sono finito contro una macchina. Ho dovuto anche pagare i graffi che l’auto aveva riportato, oltre ai danni alla bici e al mio impermeabile”.

“Non è vero che quello che faccio è un lavoro autonomo – alza la voce il rider che opera in Friuli Venezia Giulia -, siamo governati da un’applicazione che decide tutto. Se sono stanco, devo lavorare. Se ho la febbre, devo lavorare. Non ho la malattia, non ho giorni liberi: se me li prendo non mi pagano. E c’è una competizione folle con gli altri rider per prendere l’ultima consegna”.

Una consegna che deve essere portata a termine più velocemente possibile altrimenti il cliente si lamenta.

Una storia agghiacciante che ricorda perfettamente il film Tempi Moderni di Chaplin, dove il lavoratore è solo una macchina senza anima né diritti ma solo doveri.

Velocità ed efficienza, sono queste le parole d’ordine vigenti nel mondo dei rider o semplicemente dei nuovi schiavi invisibili a tutto e a tutti salvo al cliente pronto a lamentele e minacce se la consegna non spacca il minuto.

La storia di Sebastian Galassi

Dopotutto il tempo è denaro, vero, ma la vita umana è preziosa tanto quanto la dignità del lavoratore.

Quella stessa dignità che è stata calpestata a Sebastian Galassi, rider ventiseienne, licenziato dalla società Glovo poiché non aveva effettuato una consegna che gli era stata affidata. Un messaggio freddo sull’app, di quelli preimpostati e automatici, lo informava che il rapporto di lavoro era terminato. Ma il ragazzo quel messaggio non l’ha mai letto.

Il ragazzo era deceduto in un incidente stradale a Firenze proprio mentre effettuava la consegna ma ci hanno pensato i familiari a diffonderlo. L’azienda aveva detto che si era trattato di un errore e per rimediare ha promesso di pagare parte delle spese del funerale del ragazzo.

Non un caso isolato

Purtroppo, la morte di Galassi avvenuta il 3 ottobre del 2022 non è un caso isolato.

Nel marzo dello stesso anno, sempre in un incidente, a Livorno, perde la vita un altro rider, il trentaduenne Willy De Rose.

Il giovane era un grande appassionato di rugby, lo aveva praticato da ragazzo arrivando ad ottimi livelli nella Etruschi Livorno, poi la necessità di lavorare per una vita più stabile lo aveva costretto a trasferire l’amore per la palla ovale nel ruolo di allenatore dei ragazzini.

William è morto a Livorno mentre a bordo dello scooter con la borsa termica, stava facendo la consegna per conto di una delle aziende che attraverso l’algoritmo cadenzano il ritmo (accelerato) della distribuzione incrociandolo con la comodità dei clienti.

Tutto questo non avviene però nel periodo della grande depressione ma in uno Stato di diritto dove il diritto al lavoro è Costituzionalmente riconosciuto e la dignità del lavoratore è garantita in ogni caso, almeno così dovrebbe essere.