Il calvario dei nostri connazionali istriani tra negazionismo e minimizzazione

Il calvario dei nostri connazionali istriani tra negazionismo e minimizzazioneIl calvario dei nostri connazionali istriani tra negazionismo e minimizzazione – Il 10 febbraio è stato istituito il giorno del ricordo con la legge 30 marzo 2004 n. 92, al fine di “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.

Figure simbolo di queste pagine storiche sono due giovani donne che, per di più, sono legate dalle loro date di nascita e di morte.

Egea Haffner nata il 3 ottobre 1941, la “bambina con la valigia” divenuta l’icona dell’esodo giuliano dalmata, grazie all’esposizione della sua foto emersa dal cassetto dei ricordi nel 1997, quando fu scelta per il manifesto ufficiale della mostra “Istria – i volti dell’esodo 1945 – 1956”.

La foto simbolo dell’esilio

Una creatura di soli quattro anni e mezzo ,divenuta simbolo dell’esilio forzato, seguente agli eccidi noti come massacri delle foibe, consistito nell’emigrazione forzata della maggioranza dei cittadini di nazionalità e di lingua italiana dalla Venezia Giulia (comprendente il Friuli Orientale, l’Istria e il Quarnaro) e dalla Dalmazia, nonché di un consistente numero di cittadini italiani (o che lo erano stati fino poco prima) di nazionalità mista, slovena e croata, che si verificò a partire dalla fine della seconda guerra mondiale (1945) e nel decennio successivo.

Si stima che i giuliani (in particolare istriani e fiumani) e i dalmati italiani che emigrarono dalle loro terre di origine ammontino a un numero compreso tra le 250.000 e le 350.000 persone.

Una foto scattata dal fotografo di fiducia Giacomo Szentivànyi, per volontà dello zio della piccola Egea, poco prima di partire.

Un’immagine che ritrae la bambina con in mano un ombrellino ed una valigia su cui compare un cartello che recita “ESULE GIULIANA 30.001”.

L’onta dell’esilio

Lo zio voleva dire che tutti i 30.000 italiani che vivevano a Pola avrebbero lasciato la Città, premonizione che si avverò con circa 29.000 italiani che fuggirono in pochissimi anni.

Egea rimasta orfana di padre, scomparso nelle foibe, abbandonò Pola nel luglio 1946 per raggiungere Cagliari insieme alla madre. Nel 1947 fu affidata alla nonna e agli zii paterni che si erano stabiliti a Bolzano.

Oggi, la piccola esule è una donna, una moglie, una madre, una nonna e quindi non solo l’amaro simbolo di una pagina che ha segnato principalmente il popolo italiano ma anche un simbolo di riscatto e rivincita della vita sulla morte, della speranza sulle tenebre, dell’umanità sulla barbarie.

Una bambina, oggi donna, ma soprattutto la voce di chi non ne ha più, perché le è stata tolta tra torture, violenza fino al colpo di grazia, frutto di una lenta e straziante agonia.

Norma Cossetto

Come la voce di Norma Cossetto, simbolo del massacro delle foibe.

Una studentessa universitaria istriana, torturata, violentata e gettata in una foiba. Uccisa dai partigiani di Josip Broz, meglio conosciuto come Maresciallo Tito, nella notte tra il 4 e il 5 ottobre 1943.

Una violenza efferata che si può amaramente leggere dal racconto di Licia Cossetto, sorella di Norma:

“Ancora adesso la notte ho gli incubi, al ricordo di come l’abbiamo trovata: mani legate dietro alla schiena, tutto aperto sul seno il golfino di lana tirolese comperatoci da papà la volta che ci aveva portate sulle Dolomiti, tutti i vestiti tirati sopra all’addome […] Solo il viso mi sembrava abbastanza sereno. Ho cercato di guardare se avesse dei colpi di arma da fuoco, ma non aveva niente; sono convinta che l’abbiano gettata giù ancora viva. Mentre stavo lì, cercando di ricomporla, una signora si è avvicinata e mi ha detto: “Signorina non le dico il mio nome, ma io quel pomeriggio, dalla mia casa che era vicina alla scuola, dalle imposte socchiuse, ho visto sua sorella legata ad un tavolo e delle belve abusare di lei; alla sera poi ho sentito anche i suoi lamenti: invocava la mamma e chiedeva acqua, ma non ho potuto fare niente, perché avevo paura anch’io”.

I negazionisti nostrani

C’è tanto da riflettere sul perché ci sia ancora così tanto, troppo negazionismo sull’eccidio delle foibe, nonostante la giornata del ricordo anche se istituita tardi, troppo tardi per uno stato di diritto, e nonostante la vigenza dell’ultimo comma dell’art 604 bis cp che prevede espressamente “l’applicazione della pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda ovvero l’istigazione e l’incitamento sono commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull’apologia della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale”.

Vicende e condotte impregnate di scetticismo, dirette a minimizzare o addirittura negare un eccidio scritto col sangue degli italiani e che, di conseguenza, confermano amaramente quanto detto da Egea Haffner:

“ll giorno del Ricordo serve, serve perché c’è molta ignoranza ancora, nel senso che c’è gente che ignora. E bisogna portarlo anche nelle scuole, portare i libri, perché pochi sanno, almeno fino a pochi anni fa. Adesso magari lo sapranno. Quando dicevo che ero profuga nessuno lo capiva. Dicevano profuga con disprezzo”.