Istria, Kosovo, Dombas, Gaza

Terre che trasudano di identità nazionale. Storie simili e destini comuni

 

Istria, Kosovo, Dombas, Gaza – Terre che trasudano di identità nazionale. Storie simili e destini comuni

Ad una prima lettura veloce, l’elemento trasversale che accomuna terre come l’Istria, il Kosovo, il Donbass e la Striscia di Gaza, sembrerebbe il destino storico che le ha viste coinvolte in tragedie, conflitti persecuzioni, eventi sanguinosi, esodi di massa. Ed è vero, ma queste considerazioni non esauriscono la descrizione del profilo di questi luoghi: ognuna di queste lande martoriate è permeata di storia centenaria, millenaria; una storia che trasuda appartenenza e identità nazionale. Certa, riconoscibile, non negoziabile. Su Istria, Fiume e Dalmazia

in questi giorni è stato versato un mare di inchiostro, anche dando voce a ignobili tesi riduzioniste, relativiste se non negazioniste. Ma è certo ed incontestabile che le Foibe raccontano una vicenda unica di orrore e pulizia etnica. Come è innegabile il fatto storico che gli italiani abbiano da sempre abitato l’Istria e la Dalmazia, costruendone l’impianto e la struttura, marcandone l’identità con una precisa impronta che non potrà essere discussa o rigettata. Le terre irredente rimasero sotto i romani fino al 1204, poi sotto Venezia, poi ancora sotto l’Impero Austro-Ungarico e, infine, sotto il Regno d’Italia.

La cesura temporale e criminale è quella che va dal 1943 al 1946, orribile parentesi di morte nella quale gli Italiani, sono stati sterminati dai partigiani comunisti jugoslavi e costretti a diventare esuli, abbandonando case, beni, proprietà e affetti. Quello che resta (l’Architettura romana, quella veneziana, i templi, le arene, i campanili) svetta immortale e rivendica identità ed appartenenza. La storia e le sue vestigia rimangono indelebili, denunciano la pulizia etnica e accusano, con un grido di dolore, anni di menzogne, artificiali rimozioni e vergognose complicità.

Kosovo le origini

Gli storiografi e gli studiosi di geopolitica più attenti conoscono l’importanza strategica che quest’area dell’ex-Jugoslavia riveste nello scacchiere mondiale e nelle relazioni tra Popoli e Stati. Da secoli è il cuore irrequieto dei Balcani e in senso lato, il nodo irrisolto di una Europa pavida e divisa.

Tramontato l’Impero di Roma nel V secolo, è passato sotto il controllo del regno di Serbia, che ne ha fatto per secoli il centro culturale, religioso e politico della fiorente civiltà slava del sud. Tra i secoli XIII e XIV, la dinastia serba dei Nemanjić, della quale Stefan Dušan IV (1331-1355) fu la massima espressione, diffuse la religione cristiano-ortodossa, edificò città e monasteri, e mantenne il controllo di una regione a significativa maggioranza slava.

Ma è la leggendaria battaglia della “Piana dei Merli” (28 giugno 1389,) che, nonostante la sconfitta sul campo, consacrò la “Vecchia Serbia” come ultimo baluardo di Europa e segnò l’epopea della resistenza Cristiana all’espansionismo turco Ottomano.

Dietro la spinta di discriminazioni e persecuzioni, la migrazione dei Serbi si intensificò e con essa il temporaneo controllo degli Albanesi – convertitisi in massa all’Islam – agevolato da imponenti contro-flussi immigratori. Le guerre Balcaniche segnarono infine il ritorno del controllo serbo sul Kosovo. Serbia che aveva sconfitto l’Albania, con il supporto, seppur temporaneo, della Alleanza Balcanica in chiave anti Ottomana.

La storia moderna

Quello che avviene dopo è storia moderna (primo conflitto mondiale, nascita della Jugoslavia, Tito, Seconda guerra mondiale, dissoluzione e Guerra civile negli anni 90). Gli eventi sono noti, meno le responsabilità di una Europa che consegnò il Kosovo – con ruolo complice e attivo (i bombardamenti su Belgrado rimarranno una delle pagine più emblematiche e vergognose della storia moderna di questa Europa, gigante economico, ma verme politico – nelle mani dei terroristi dell’Uck, e trasformando una delle culle tradizionali del nostro continente, in uno staterello corrotto, dedito al  narco-traffico e al commercio di organi umani, ma soprattutto frontiera aperta (la dorsale verde dei Balcani) alla impunita circolazione e penetrazione del fondamentalismo estremista e del  terrorismo di matrice islamista.

Il Monastero di Dečani, Patrimonio Unesco dell’Umanità per l’indiscutibile valore artistico e storico insieme ad altri tre monumenti religiosi medievali (il Monastero patriarcale di Peć, Nostra Signora di Ljeviš e il Monastero di Gračanica), svettano ancora immortali e ricordano perennemente la fiera identità di quella terra e di quel popolo.

Donbass

Basterebbe ricordare che l’Ucraina stessa, tutta, è storicamente parte della Russia e che il Donbass né è emblematica punta dell’iceberg: terra di identità, tradizioni, lingua, religione russa,  per anni sacrificata in nome di disegni bizantini di realpolitik.

La guerra in Ucraina non è iniziata con “l’operazione militare speciale di Putin” a protezione delle minoranze russofone vessate dal corrotto governo ucraino; non è scoppiata il 24 febbraio 2022, ma il 20 febbraio 2014, ben 8 anni prima.

Le Repubbliche di Lugansk e Donesk, sono una trincea eretta a difesa dell’identità Russa dopo il tradimento degli accordi di Minsk, mai rispettati da Kiev. Con buona pace della vulgata occidentale, dimentica della criminale sollevazione del Maidan e dell’eccidio della Casa dei Sindacati di Odessa (come far finta che non ci sia stato il rogo di civili vivi perpetrato impunemente e con cieco odio etnico da estremisti Ucraini?), nonché di anni di persecuzioni e violenze su inermi civili russi da parte di milizie criminali giallo azzurre con il beneplacito silenzio connivente e determinante sostegno del governo di Kiev.

Il Donbass – che significa bacino del Donec – è un’area (solo geograficamente) dell’Ucraina orientale suddivisa in tre oblast (che in russo, grossomodo, equivale, alle regioni), Da qui, Kiev è distante 700 km. E tutto, o quasi, era ed è tonato a predominanza russa: dalla lingua alla chiesa.

Gaza e la Palestina

Sia per ambito che distanza spaziale, sia per la identità dei popoli interessati, questo quarto esempio di identità calpestate ed offese, sembrerebbe aver poco in comune con i tre precedenti. La martoriata striscia di terra lambita dal Mediterraneo e di fatto imprigionata su tre lati in un gigantesco carcere a cielo aperto è una delle are più sovraffollate del Medio Oriente (2 milioni di persone rinchiuse in condizioni degradanti in poco più di 350 km quadrati), equivalente per estensione alla provincia di Prato, abitatala però, da oltre dieci volte la popolazione del piccolo capoluogo toscano.

Occupata prima da Giordania ed Egitto (dal 1948), poi da Israele dopo la guerra dei “6 giorni” (1967), è rivendicata oggi, insieme alla Cisgordania , dalla Autorità nazionale palestinese. A nulla sono valsi gli appelli e anche le condanne comminate dall’Onu in numerose risoluzioni. A oggi Gaza (e tutta la Palestina), terra delle 3 grandi religioni, di raffinati poeti, scrittori e musicisti arabi, di millenarie tradizioni identitarie, resta ferita, straziata ed occupata da chi non intende riconoscerne la identità e l’indipendenza.

Luca Armaroli

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