Omicidio Mastropietro: intervista all’avvocato Marco Verni

Omicidio Mastropietro: intervista all’avvocato Mario VerniOmicidio Mastropietro: intervista all’avvocato Marco Verni – Lo scorso 22 febbraio per l’omicidio di Pamela Mastropietro è stato confermato l’ergastolo per Innocent Oseghale, il nigeriano che ha ucciso e fatto a pezzi la diciottenne nel gennaio del 2018 a Macerata.

Una data storica che, per di più, ha luogo proprio a sei mesi dalla nascita del Comitato Nazionale sulla criminalità etnica in Italia, fondato il 23 agosto, giorno del compleanno di Pamela.

Un’ iniziativa nata per raccogliere e analizzare i dati, le cause, le conseguenze e tutto ciò che possa riguardare il nostro paese su questo fenomeno collegato alle organizzazioni criminali autoctone e transnazionali.

Un Comitato che, a poche settimane dalla sua nascita, è diventato un Osservatorio dedicato non solo a Pamela ma a tutte le vittime e ai loro familiari che hanno dei crimini culturalmente orientati.

Abbiamo intervistato l’ideatore del Comitato, l’avvocato Marco Valerio Verni che, oltre a essere il legale della famiglia Mastropietro, è anche zio e padrino di Pamela.

Avvocato cosa l’ha spinta a mettere in atto questo progetto?

Guardi, più che una nostra iniziativa, che certamente rivendichiamo, tanta gente ci ha chiesto di ipotizzare un contenitore di pensiero che potesse raccogliere dati, studiare, avanzare confronti e proposte, sui reati commessi dalle organizzazioni criminali etniche in Italia.

Su di essi, infatti, si ha l’impressione che, per vari motivi, si cerchi spesso di far finta di nulla.

Ritengo invece che se si voglia affrontare la criminalità tutta ,non si debba sottacere quanto compie una parte di essa, anche sull’ovvio presupposto che le varie organizzazioni italiane (per rimanere al nostro paese) e appunto straniere, agiscano spesso in sinergia, trovando reciproco vantaggio.

Ma l’attenzione è anche rivolta alla criminalità che, seppur non riconducibile a forme associative, possa comunque costituire fonte di allarme sociale, per il tipo di reato consumato e/o per le modalità dello stesso.

Quanto alla considerazione relativa al fatto che le prime vittime della mafia nigeriana siano le nigeriane stesse, niente di più vero. E questo può valere per tutte le altre forme di criminalità organizzata etnica presenti in Italia.

Lo dovrebbe tenere a mente chi, per interesse, malafede, ignoranza, pregiudizio o altro, sostiene che parlare di tale tematica sia sinonimo di intenti razzisti o discriminatori.

Non scherziamo.

Sulla base di tutto ciò, perché, a suo avviso, questo cancro, che si è aggiunto a quelli già esistenti nella nostra nazione, è stato trascurato?

È un argomento politicamente scomodo, dal momento che, irrimediabilmente, è collegato con quello dell’immigrazione irregolare, dietro la quale, come sappiamo, si muovono fiumi di denaro.

Poi c’è la paura dell’essere tacciati di razzismo o di incitamento all’odio razziale: ma chi lancia queste accuse lo fa strumentalmente, ignorando alcuni dati incontrovertibili.

Parlando non solo di mafia nigeriana, nell’uso polisemico del termine, ma anche di tutte le altre organizzazioni criminali etniche, sfugge, ad esempio che la loro presenza sul nostro territorio finisca con il rafforzare, al dunque, le mafie autoctone, visto che queste ultime appaltano alle prime alcune attività illecite (in primis, spaccio di sostanze stupefacenti e sfruttamento della prostituzione), potendosi esse dedicare, invece, ad altre, meno “visibili” ma non meno redditizie per loro e dannose per la collettività, tra cui le gare di appalto, lo smaltimento dei rifiuti, la sanità.

Ne abbiamo avuto un esempio, semmai ce ne fosse stato bisogno nei lunghi mesi di pandemia derivata dal Covid-19.

Inoltre, se parliamo di mafia nigeriana, come dicevamo prima, non si deve dimenticare (ma per farlo, bisognerebbe studiare, ed oggi purtroppo molti parlano solo per preconcetti ideologici) che le prime vittime sono le nigeriane stesse, da quando, con l’inganno o la violenza, dopo essere state sottoposte a particolari riti, sono prese dai loro villaggi ed indirizzate in Italia, da trafficanti senza scrupoli, a quando, da noi (ma ciò vale per tutti gli altri paesi), vengono “messe sulla strada” a prostituirsi.

Con gravi conseguenze per l’incolumità fisica loro o dei loro cari rimasti in Nigeria in caso di loro rifiuto o tradimento.

Lo stesso vale per altre organizzazioni criminali etniche, sulle quali non si deve abbassare la guardia.

Quali sono i progetti in corso o futuri per concretizzare gli obiettivi che hanno portato alla nascita di questo osservatorio? Di conseguenza come e quanto pensa che questo progetto possa smuovere le acque?

Al momento confesso che vi sia un momento di riflessione, perché stiamo valutando la via migliore per rendere questo progetto il più possibile efficace in termini di ricerca scientifica.

Ma già aver sollevato la questione di una carenza, in tal senso di un think-tank “ad hoc” credo che sia già un buon punto di partenza.

Ci sono molte associazioni che si occupano ad esempio, di mafie, ma con il focus solo e soltanto verso quelle italiane.

Come se appunto, vi siano dei compartimenti stagni tra organizzazioni criminali nostrane e quelle straniere o etniche.

O come, addirittura, se queste ultime non esistessero.

Noi abbiamo dato il via affinché questo vuoto venga colmato.