Tassa extraprofitti bancari: una revisione al ribasso

Tassa extraprofitti bancari: una revisione al ribassoTassa extraprofitti bancari: una revisione al ribasso – Alla fine, sta andando in porto la discussa tassa sugli “extraprofitti bancari” del Governo Meloni, rivista, tuttavia, pesantemente al ribasso.

La tassa, pur partendo da un principio più che condivisibile, ovvero il principio secondo cui le banche dovrebbero aumentare la propria contribuzione fiscale al crescere del proprio margine d’interesse, presentava già gravi criticità nella sua prima formulazione (come già fatto presente in un nostro precedente articolo del 10 agosto a cui è bene rimandare), tra cui, in estrema sintesi: la natura contingente ed erratica della misura, l’incertezza del concetto stesso di “extraprofitto”, l’arbitrarietà dell’aliquota applicata, i parametri di riferimento della base imponibile.

La montagna ha partorito il topolino

Adesso, sommessamente, il Governo Meloni, dopo essersi ammantato di una ritrovata immagine populista per ravvivare l’estate degli italiani, richiamato all’ordine (sic) da banche nostrane ed eurocrazie varie, rivede al ribasso la norma, depotenziandola e sostanzialmente liquidandola.

Due le modifiche di maggior rilievo: la prima prevede l’esclusione dalla base imponibile i ricavi derivanti dall’incasso di interessi relativi alla detenzione di titoli di stato (che costituiscono notoriamente una componente decisamente importante degli attivi bancari, con i rendimenti in netta crescita a seguito dei rialzi dei tassi operati nell’ultimo anno dalla BCE) e la seconda che, di ancor maggior importanza, prevede la facoltà per le banche di destinare ad una specifica riserva di patrimonio netto, assimilabile all’equity di prima categoria (CET1 per gli standard di Basilea che fondano la regolamentazione bancaria), le somme teoricamente e alternativamente dovute al fisco, se aumentate ulteriormente del 150%.

Come funziona il regalo alle banche

In soldoni: se la banca teoricamente deve pagare 1 milione di euro, può decidere di accantonarne in una riserva non distribuibile, a rafforzamento del capitale proprio, 2,5 milioni e non versare niente.

Con tale previsione si incentiva il rafforzamento patrimoniale delle banche, essenzialmente le si invita a trattenersi in casa maggior parte degli utili, riducendo la propensione a distribuire dividendi.

Se la banca decide per questa strada (come è probabile che faccia), distribuisce quindi meno proventi ai propri azionisti ma al tempo stesso non è tenuta a versare niente neanche allo Stato e alla fine, accrescendo il proprio patrimonio, adempie più facilmente a requisiti patrimoniali in cui comunque incorrerebbe vista la continua pressione degli organi regolamentari (in primis la BCE nella quadra della regolamentazione prevista dal Meccanismo di Vigilanza Unico).

Aumentando il valore del patrimonio per mera riduzione dell’utile distribuito è anche da aspettarsi che l’azionista, in realtà, non consegua alcuna perdita di valore, dal momento che se è vero che sarà meno ricco il dividendo, sarà più sostanzioso il valore del titolo azionario.

Se quindi, la ratio iniziale della tassa voleva essere una minima (e sacrosanta) redistribuzione di ricchezza dalle banche, non tanto come entità giuridiche o meramente astratte ma in concrete ovvero dai soci delle banche che ricevono laute remunerazioni dalle attività di quest’ultime, a favore della collettività, la misura sembra decisamente votata al fallimento.

Insomma, tanto fumo per niente, perché da una norma scritta e concepita ab origine estremamente male, non si salva ora neanche l’ambizione originaria, avendo concesso subito la scappatoia per evitare, sic et simpliciter, di effettuare alcun pagamento.

Filippo Deidda