30 Dicembre 2006: Saddam Hussein sale al patibolo 

30 Dicembre 2006: Saddam Hussein sale al patibolo 

30 Dicembre 2006: Saddam Hussein sale al patibolo Il 30 dicembre del 2006, Saddam Hussein, deposto presidente dell’Iraq, che governò dal 1979 al 2003, fu impiccato in esecuzione della condanna a morte emessa dal supremo tribunale penale iracheno. La decisione, poi confermata in appello, lo aveva riconosciuto colpevole di “delitti contro l’umanità”, per aver ordinato l’uccisione di 148 abitanti del villaggio di al-Dujail, avvenuta nel 1982 a seguito di un tentativo di assassinio del Rais.

Il processo contro l’ex capo di Stato fu pesantemente condizionato da interferenze politiche, tanto forti da determinare la rinuncia del primo presidente del collegio, e da veri e propri atti di violenza intimidatoria contro la difesa e i testimoni a discarico, culminati nell’assassinio di tre avvocati dell’accusato.

Del resto, era già evidente che nessuna regola giuridica – nonostante la favola della esportazione della democrazia, che avrebbe dovuto riguardare anche le garanzie processuali e gabellata anche per sistemare la questione Iraq – sarebbe stata rispettata.

Le famose “regole democratiche”

Ne aveva già dato ampia prova il trattamento riservato dal neonato regime collaborazionista iracheno sotto tutela di Washington, che dal maggio 2003 fino alla sua morte tenne sotto chiave, in un campo militare statunitense, il ministro di Saddam, Tarek Aziz, senza che nei suoi confronti fosse formulata una accusa precisa, ove considerato imputato, e senza le garanzie della Convenzione di Ginevra del 1949, ove considerato prigioniero di guerra.

Tanto che la Commissione dei diritti umani dell’Onu, sfornita però di poteri deliberativi ma solo consultivi, su iniziativa del collegio difensivo italiano, all’epoca capeggiato dal valoroso avvocato Marcantonio Bezicheri, considerò ingiustificata la detenzione di Aziz e invitò i governi responsabili di questa situazione, a liberarlo.

Invito ovviamente tenuto in non cale.

Menzogne di guerra

L’invasione del paese arabo, iniziata il 20 marzo 2003 da una coalizione guidata dagli Stati Uniti, fu motivata da accuse inventate di sana pianta: quella di possedere armi di distruzione di massa e di favorire il terrorismo islamista.

Dopo aver messo a ferro e fuoco e poi rivoltato il paese come un calzino, nessuna arma di distruzione di massa fu mai rinvenuta. Quanto al terrorismo islamista, esso si manifestò, invece, proprio dopo la caduta di Saddam il quale, a capo di un regime governato dal partito socialista e nazionale Baath, aveva mantenuto in Iraq un sistema laico, dove anche le confessioni non-musulmane godevano di ampia libertà; costituendone piena prova la fede cristiana del suo ministro più fidato, Tarek Aziz.

Chi non ricorda l’indecente esibizione della fialetta di antrace agitata dal segretario di Stato Colin Powell davanti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, come prova di depositi di armi chimiche ?  E chi può dimenticarsi le scuse, tanto ritardate quanto inutili, dell’ex premier britannico Tony Blair per aver appoggiato militarmente la guerra contro l’Iraq?

Il crollo del regime, voluto soprattutto dalla lobby neo-con, che all’epoca imperversava nei vertici dell’amministrazione nordamericana, aprì un vaso di Pandora in un paese certamente complicato, portando alla sua totale destabilizzazione.

Difficile stabilire quali, fra le principali ragioni dell’invasione, sotto la foglia di fico della esportazione della democrazia, fossero prioritarie per gli Stati Uniti: controllare la produzione petrolifera approfittando del vuoto di potere, ridisegnare i rapporti con L’Europa e le potenze asiatiche, togliere di mezzo un pericoloso avversario di Israele.

Le ultime parole di Saddam. Una riflessione.

Le ultime parole che sarebbero state pronunciate da Saddam, già con la testa infilata dentro il cappio, furono oggetto di diverse versioni; secondo l’ultima egli avrebbe inveito contro gli Stati Uniti e gridato “viva la Palestina”.

Secondo quella precedente, invece, la prima diffusa dal main-stream subito dopo l’esecuzione, egli avrebbe invece rivolto un monito al proprio popolo affinché rimanesse unito e non si fidasse dell’Iran.

Parole queste che, se vere – la versione successiva pare effettivamente un po’ scontata e confligge con la calma mostrata dal Rais sul patibolo – suggerirebbero, considerata la loro pronuncia in articulo mortis, una brevissima riflessione.

Ossia che le ragioni storiche, anche le più remote non finiscono mai di incidere nella pelle dei popoli.

Più che i sanguinosi otto anni di guerra (1980-1988) e la fede sunnita di Saddam, rimane iscritta nella storia e nelle dinamiche geopolitiche la lunga rivalità culturale, religiosa e politica fra Persiani e Arabi, vecchia di oltre 1300 anni e iniziata con la conquista arabo-musulmana dell’impero sassanide nella prima metà del VII° secolo.

A dimostrazione, anche, che il nemico del mio nemico non è necessariamente mio amico.