Congo sporco affare

Congo sporco affareCongo sporco affare – Terminato il Secondo Conflitto Mondiale, un’Europa divisa, stremata e confusa, si dimostrò incapace della fermezza necessaria per avviare le proprie colonie d’oltremare ad un regolare ed ordinato processo di accesso all’autodeterminazione; preferendo invece sacrificare gli interessi storici economici e politici che la legavano naturalmente al continente africano, per sottomettersi alla pressione esercitata dai governi di Washington e Mosca, con lo scopo d’impadronirsi delle ricchezze minerarie locali ed avviare un gioco del domino destabilizzante per i coloni bianchi, chiamato, ipocritamente, wind of change.

Sotto la frenesia di una decolonizzazione accelerata e caotica, i popoli nativi si trovarono così investiti da una propaganda intensa, ricca di parole roboanti ma vuote di significato per delle menti semplici e concrete come erano quelle africane, fortemente legate alle proprie tradizioni tribali.

La decolonizzazione

In realtà, ma questo apparirà chiaro solo dopo, le due Potenze Mondiali dominatrici parlavano d’indipendenza, evoluzione ed emancipazione solo per mascherare il loro vero obiettivo: quello di eliminare la presenza europea dalle sue fonti di materie prime, per impedirle di assumere un ruolo di rilievo, politico ed economico, su scala mondiale.

A giochi conclusi, con indipendenze forzate, spesso avvolte nel sangue di massacri e spietate lotte fratricide, per gli africani tutto limiterà ad un semplice cambio di tutore. Il colonialismo rappresentava indubbiamente un sistema obsoleto, viziato da una concezione utilitaristica dello sfruttamento dei paesi esplorati ed annessi ma, è innegabile, come esso sia anche servito ad aprire le porte dell’Africa alla civiltà europea con tutti i benefici del caso: guerra alle malattie secolari; costruzione di scuole, chiese ed ospedali; apertura di vie di comunicazione; razionalizzazione dell’agricoltura con lotta alle carestie ed alla siccità; creazione di un corpo d’insegnanti e di amministratori pubblici; introduzione di leggi scritte; limitazione delle lotte tribali ed infine l’abolizione della schiavitù; iniquo commercio secolare gestito dai commercianti arabi.

Ma, più importante di tutti, ha saputo dare agli africani la nozione di quel nazionalismo su cui baseranno quelle rivendicazioni che li porterà ad un’emancipazione naturale prima ancora che legale.

A partire da Kenya, Tunisia e Marocco, negli anni 50; gli europei avevano già iniziato il processo per un accesso graduale all’autodeterminazione dei territori da loro amministrati ed alla preparazione dei quadri autoctoni, nelle cui mani rimettere la sovranità degli stati in essere ma non avevano tenuto in considerazione che altre forze erano entrate in gioco per fini più strumentali.

Gli USA spingono sull’acceleratore

Prima di tutti l’alta finanza americana di stampo roosveltiano, la stessa che aveva appena appoggiato l’elezione di John Kennedy alla Casa Bianca (1961), rampollo di una famiglia ricchissima con vasti interessi nel settore minerario e poi l’Unione Sovietica con la sua visione di dominio globale del pianeta, su base militare.

Entrambe obbligarono, con pressioni e minacce i deboli dirigenti dell’Europa post-bellica ad una rapida decolonizzazione, senza preoccuparsi se esistessero o meno le condizioni per un trapasso pacifico dei poteri in mani africane responsabili; anzi, queste due potenze egemoni, puntavano proprio al caos che sarebbe derivato dall’affidare il potere a mani incapaci, per poter meglio stendere la tela del proprio dominio globale. Basta gettare un occhio su una carta economica dell’Africa per notare come la maggior parte delle materie prime necessarie all’industria convenzionale ed a quella della tecnologia nucleare siano collocate al di sotto della linea dell’Equatore, ugualmente per le “terre rare” divenute il composto minerale più attrattivo e ricercato del momento; da qui l’interesse strategico per controllarne l’estrazione usando il ricatto economico-militare, oggi di solo appannaggio USA ma non così negli anni 60.

Il Congo nell’occhio del ciclone

La preda stabilita aveva un nome: l’allora Congo, poi diventato Zaire quindi Repubblica Democratica del Congo; territorio già colonia belga dal 1908 al 1960.

Questa attenzione particolare era nata durante la Seconda guerra mondiale quando, dopo la caduta di Singapore, gli americani riuscirono a coprire il loro enorme fabbisogno di caucciù grazie al materiale proveniente dalle piantagioni locali; lavorate da manodopera africana poi ricompensata con una decorazione appositamente coniata per loro, con cui pavoneggiarsi nelle adunate tribali.

Mire USA sulle materie prime

Con l’uranio del Congo vennero realizzate le bombe A che distrussero Hiroshima e Nagasaki ma non finisce qui. Le missioni militari americane che sostarono in loco si accorsero anche dell’ingente presenza di Cobalto ed altri minerali come il Rame. Nel ritornare in patria si portarono appresso cartine geologiche dettagliate ed i dati statistici di produzione che le compagnie minerarie belghe tenevano “segreti”.

A partire da quel momento; il Congo entra nell’orbita dell’attenzione interessata degli ambienti governativi e finanziari statunitensi. Si tratterà solo di aspettare il momento opportuno per muoversi alla sua conquista.

Dall’altro lato anche l’Unione Sovietica era venuta a conoscenza di queste informazioni riservate e si mosse per conseguire due obiettivi: tagliare agli USA la maggior fonte di materiali radioattivi, mettendo in crisi tutta la produzione del settore, presente nella sfera occidentale ed usare il Congo come piattaforma di attacco verso i territori posti a meridione: leggi Angola; Mozambico; l’allora Unione Sudafricana e l’emergente Rhodesia del Sud.

Fuori gli europei!

Per arrivare al controllo del Congo, le prime fasi del piano di azione erano coincidenti per entrambi russi ed americani: bisognava estromettere gli europei dal controllo delle miniere, creando uno stato di caos che favorisse l’inserimento di propri uomini alla testa del Paese.

Patrice Lumumba per il Cremlino e Joseph Kasa Vubu prima e Mobutu Sese Seko dopo per la Casa Bianca.

A giochi apparentemente fatti, apparve però sulla scena politica un personaggio imprevisto a rimettere tutto in gioco ed a riaprire la partita con le grandi potenze predatorie: Moise Tsombé, leader delle stato meridionale del Katanga: personaggio carismatico d’intelligenza non comune, di grande coraggio e portatore di una visione unica che avrebbe voluto bianchi ed africani, stretti in un unico patto di sviluppo reale del Paese in cui non vi fosse spazio per la speculazione anonima, il cui unico scopo sarebbe stato quello di un nuovo neocolonialismo finanziario. Se fosse sopravvissuto, il patriota katanghese che sognò un’Africa per gli africani, il continente avrebbe potuto autodeterminarsi e governarsi in maniera meno traumatica, limitandosi a seguire il suo insegnamento realistico e non divisivo.

Da pragmatista quale era non si fece alcuno scrupolo nel lanciare un appello a volontari europei per riuscire a far fronte, in breve tempo, al sanguinoso caos dilagante, impossibile da controllare con le locali truppe di colore, indisciplinate e male addestrate.

Perlomeno tentammo

All’appello accorreranno centinaia di ragazzi da ogni dove: vi saranno francesi, reduci di un’Algeria tradita da De Gaulle; inglesi; rhodesiani; sudafricani; belgi; tedeschi; greci; portoghesi ed un nutrito pugno d’Italiani come Piero Nebiolo, Tullio Moneta; Girolamo Simonetti e quel Pier Giorgio Norbiato che cadrà eroicamente in Biafra nel 1968, a Port Harcourt.

Nel 1974 il celebre scrittore inglese Frederick Forsyth, nella prefazione al suo famoso libro “I Mastini Della Guerra”, scriverà, in ammirazione: “a Giorgio, a Christian, a Sclee, a Big Mac, a Black Johnny ed a tutti gli altri nelle tombe anonime. Perlomeno tentammo”.

Un “tentare” non facile, quello attuato da un pugno di “soldati di fortuna”, agli ordini del tedesco Rolf Steiner, con armi leggere e qualche aereo a pistoni, contro un governo federale della Nigeria, rifornito di armi moderne ed istruttori da Londra che così mirava a salvaguardare gli interessi petroliferi della sua BP; ma loro non si tirarono indietro e morirono sul posto, portati in spalla, cadaveri, dai compagni d’armi di pelle scura, verso una fossa ignota scavata nella giungla. Lo fecero per soldi? Ne dubito.

Il massacro di Kindu

Per la stampa i mercenari erano avventurieri assetati di bottino e di sangue; nella realtà molti di loro erano semplici giovani ribelli che avevano lasciato casa e famiglia per inseguire un romantico sogno di avventura nell’Africa Nera, fuori da ogni agio e comodità; nella consapevolezza dei rischi che correvano e di una morte atroce che poteva attenderli per mano dei ribelli, come accaduto a tredici nostri aviatori a Kindu, fatti a pezzi e cannibalizzati nel novembre 1961 mentre in regolare missione di pace per conto dell’ONU.

Un massacro che creerà una feroce aspettativa di vendetta da parte dei mercenari italiani; vendetta colta nel 1966 in un assalto in cui agli italiani fu data carta bianca contro i Simba del sanguinario leader marxista Pierre Mulele, per pareggiare i conti in sospeso con Kindu.

L’ideale romantico del mercenario

L’ossatura strategica dei mercenari in Congo era rappresentata da 3 comandati di valore: l’irlandese Mike Hoare; il francese Bob Denard ed il belga Jean Schramme, al cui fianco operavano, nel rango ufficiali, veterani della seconda guerra, dell’Indocina e professionisti provenienti dalla Legione Straniera o dal SAS. Al loro fianco circa 500 “affreux”, uomini provenienti da ogni strato sociale e professionale che, per dirla con la canzone del “Mercenario di Lucera”, avevano rinunciato alla 600, al mutuo ed alla panciera, per il sogno irrepetibile di un’avventura in Africa, mettendosi alle spalle tutto per diventare padroni del proprio destino, in un gioco di luci ed ombre ove vita e morte s’intrecciavano senza continuità logica.

Il mal d’Africa

Chi non conosce l’Africa non può capire la magia che essa poteva esercitare su di un europeo. Non vi erano file da fare, moduli da compilare, parcheggi da cercare ma l’immensità del nulla disorganizzato. Una vita da reinventarsi fra strade polverose; baraccopoli fatiscenti; signorine che ti si offrivano per pochi spiccioli, poliziotti corrotti… Poi però arrivava il tramonto…Ed il fiato ti si fermava nell’incanto dei mille colori dell’orizzonte. Prendevi la tua birra, ti accendevi la sigaretta e lasciavi la fantasia libera di viaggiare dove voleva, magari con l’aiuto di una ragazza vestita in abiti da poco ma la cui pelle ti eccitava in un fiato di erotismo che non avevi considerato possibile… Per un bianco di Roma o Parigi o Londra, abituato a ragazze sofisticate, attillate in abiti alla moda.

Passavi la notte aspettando l’alba… Il cui rosso ti ricordava che eri li per caso, in mano agli Dei… Aspettando il loro responso, poiché in Africa si viveva e si moriva per un capriccio dell’Olimpo. Una vita difficile, incerta, pericolosa, precaria che un pugno di avventurosi aveva accettato, preferendola alla certezza di un cartellino da timbrare e di un pezzo di carta, chiamato voto, che t’illudeva di contare qualcosa.

In Congo eri tu, i tuoi camerati e la tua arma al fianco… E poi la clessidra del Fato che scandiva il tuo domani se mai ce ne fosse stato uno. Certo in battaglia si uccide e si muore ma almeno il tuo nemico lo vedi in faccia; non è nascosto nei fiumi tossici di una civiltà che ti annienta nel ricatto consumistico ove tu esisti fintantoché generi profitto.

Il Congo indipendente

Il 30 giugno 1960 il Congo divenne formalmente indipendente dal Belgio, frutto del solito atto vile ed irresponsabile di uno stato allora periferico, in un’Europa Unita al di là da venire che lo sceglierà come sede del suo mostruoso apparato burocratico tanto gigantesco quanto inutile. La cerimonia avviene nel solito fragore retorico delle fanfare militari fra bandiere che si alzano ed altre che si abbassano nelle tinte di fondo di divise improvvisate, cariche di decorazioni luccicanti mai meritate e di sorrisi smaglianti di sergenti dell’armata coloniale promossi al rango di generale di un esercito che esisteva solo nei numeri e nelle parate sgangherate del momento.

A Leopoldville, sede del novello governo centrale, non si era ancora partiti che già i politici iniziavano a litigare fra di loro, in nome delle diverse linee tribali che rappresentavano. Iniziarono i disordini ed i massacri degli europei in un “rendez vous” facile da prevedere, con truppe di colore indisciplinate che si lanciarono immediatamente contro i loro ex ufficiali bianchi e le rispettive famiglie in un’orgia di sangue e stupri senza precedenti che non risparmiò i bambini.

Il rame del Katanga

Il risentimento, evidentemente covato a lungo, si diffuse a macchia d’olio ed il Paese finì preda del caos con gli europei chiusi in casa nell’attesa di un volo che li allontanasse da quel clima di terrore collettivo. L’11 luglio 1960, Tsombé, preso atto dell’ingovernabilità del momento, proclamò la secessione della ricca provincia del Katanga e la sua costituzione in entità politica autonoma. Alle sue spalle tutto il peso economico dell’Union Minière, la potente società mineraria, a capitale europeo che gestiva l’estrazione del rame e delle altre risorse del sottosuolo; un minerale di rame considerato, in qualità, il migliore al mondo ed al prezzo di vendita più competitivo, cosa che creava fastidio alle altre multinazionali del settore, fra cui l’Anaconda Copper di proprietà del clan politico finanziario dei Kennedy i cui bacini estrattivi si trovano in un Cile docile, ben sottomesso ai voleri americani. Bisognava fare lo stesso con il Katanga.

Con questo atto unilaterale Moise Tsombé tentò, realisticamente, di salvare il Congo dal baratro politico nel quale era stato fatto precipitare da un’affrettata concessione dell’indipendenza da parte di una monarca belga troppo debole e compromesso per resistere alle pressioni esercitate da Washington e Mosca sul palcoscenico rumoroso del Palazzo di Vetro, all’unico fine palese di togliere ogni potere residuo agli europei per diluirlo in un caos organizzato che consentisse alle proprie marionette di emergere come leader del momento.

La politica di Tsombé

All’atto dell’indipendenza del Congo, la formazione dei quadri autoctoni di comando era ancora in fase preliminare e, come previsto, il disordine finì per dilagare, al pari di un incendio ben alimentato da un vento di maestrale.

Un rogo talmente esteso da sfuggire allo stesso controllo delle due potenze ispiratrici che si trovarono costrette a misure da improvvisare sul posto.

Delle sei province, facenti parte dell’ex colonia franco-fiamminga, una sola riuscì ad evitare di essere travolta dalla marea di sangue che andava montando senza controllo: il Katanga come già detto che, chiamandosi fuori, in maniera unilaterale, come stato sovrano; forte della sua autonomia economica e della presenza di un forte contingente di “soldati di fortuna” bianchi, chiamati per ragioni contingenti essendo gli unici capaci di assumere un immediato ruolo combattivo, chiuse i propri confini al disordine ed agli agenti provocatori esterni.

Affidando le sue sorti future alla guida di un Presidente che, unico, ebbe il coraggio di andare contro corrente, percorrendo la difficile strada di una politica non demagogica, non asservita alle cancellerie straniere che aveva il suo punto centrale di azione nell’elaborazione di un progetto politico che prevedeva un modello nazionale organizzato su di una piattaforma federativa, ricavata nel rispetto di tutte le etnie territoriali presenti.

Con pragmatismo si affermava, preso atto delle differenze esistenti fra di loro che ognuno fosse padrone a casa propria evitando la demagogia di uno stato unico impossibile al momento da costruire se non sotto il tallone di una dittatura militare; un atto realistico ai piedi di una nazione di carta tutta da incollare assieme.

Cinque erano i punti di riferimento della riforma istituzionale di Tsombé:

Federazione del Congo

Essendo il paese costituito da un agglomerato di popolazione diverse per costumi, tradizioni e lingua, nessun governo centrale avrebbe mai potuto imporre la sua autorità senza incorrere in risentimenti locali.

Collaborazione razziale

L’Africa aveva bisogno della tecnologia europea così come l’Europa necessitava delle materie prime africane.

Anticomunismo

Il comunismo presentava poco da offrire alla comunità africana, in quanto sollecitava una visione assolutistica della società che non ammetteva il mantenimento di un ambiente gerarchizzato, nel rispetto di principi e tradizioni secolari in cui, il concetto di proprietà latifondista, risultava inesistente ed il principio di proletarizzazione inconcepibile.

Progresso nella Tradizione

Il bisogno inalienabile di migliorare le condizioni di vita dei nativi non doveva influire sul rispetto dei costumi e delle tradizioni dei popoli interessati.

Ripartizione dei proventi

Il Katanga accettava di spartire i guadagni derivanti dallo sfruttamento delle ingenti risorse minerarie con le altre regioni del Congo, al fine di creare nuove fonti di lavoro e di modernizzazione dell’agricoltura; a condizione però che questo non finisse per indebolire l’autonomia del Governo Katanghese, stabile in Elisabethville.

Principi concreti che avrebbero meritato di essere scolpiti sulla pietra ed affidati alla custodia di tutti i futuri capi di stato africani. Se così fosse stato il destino dell’Africa avrebbe avuto un corso meno tragico e quello europeo meno succube ai voleri estranei al suo reale interesse strategico.

Gli USA non restano a guardare

Nonostante il Katanga avesse iniziato a dimostrare, con i fatti, di essere capace di amministrarsi e di saper assicurare l’ordine ed il benessere ai propri cittadini, di ogni razza, l’ostilità di USA ed URSS a questo progetto fu totale in quanto sfuggiva dal loro controllo; a loro serviva uno stato centralizzato per meglio controllarne le mosse e condizionare i politici, con minacce o conti in Svizzera, nella direzione desiderata.

Come da copione venne mobilitato l’ONU, con il pretesto di prevenire i rischi di una guerra civile che di fatto già esisteva ma non certo in Katanga.

Il 21 febbraio 1961 le Nazioni Unite approvarono la risoluzione 161 con la quale si chiedeva di agire con tutte le forze necessarie, compreso l’uso delle armi, per arrestare il dilagare della violenza ed espellere dal paese tutto il personale militare straniero, inclusi i regolari paras belgi inviati a protezione degli europei.

La risoluzione rimase carta straccia e, per un certo tempo, Tsombé proseguì nella sua azione pacificatrice, nonostante la minaccia di un contingente ONUC , formato da truppe raccolte fra India ed Irlanda; migliaia di soldati ben pagati… Mentre mercenari erano solo gli altri…Gli scontri comunque non mancarono con i caschi blue in difficoltà di fronte a pochi mercenari ben motivati.

Queste disfatte sul campo, invece di portare l’ONU a riflettere sulla pochezza militare della propria decisione, su sollecitazione interessata dei soliti due che comandavano il banco, decisero che il contingente impegnato era insufficiente ed andasse aumentato a 20.000 unità.

La battaglia di Jadoville

Lo strapotere militare concesse loro qualche vittoria iniziale ma, il 13 settembre 1961, nella “battaglia di Jadoville”, un forte contingente irlandese, ben asserragliato, fu costretto alla resa, ufficialmente “per mancanza di munizioni, da un reparto di gendarmi katanghesi supportato da alcune decine di mercenari francesi. Una disfatta pesante anche se gli Irlandesi si batterono bene. Stranamente, mentre lo scontro politico militare era in atto, ed i giornali occidentali facevano a gara nel condannare Tsombé, nessuno sembrò scandalizzarsi del fatto che il Segretario Generale dell’ONU, lo svedese Dag Hammarskjold, avesse interessi privati nella società mineraria a capitale misto statunitense, Grangesberg Oxelo Sund che operava in Congo.

Gli interessi dei Kennedy

Così come nessuno si sforzò di trovare un nesso tra la guerra in corso e gli interessi dell’Anaconda Copper, uno dei pilastri economici del patrimonio gigantesco della famiglia Kennedy che vedeva, nel rame del Katanga, una minaccia a quello che le loro miniere estraevano in Cile ed altrove, essendo più puro e ad a buon mercato. Per parlare di “conflitto d’interessi” bisognerà aspettare Berlusconi e le sue reti televisive, carne facile da mettere al fuoco rispetto all’impossibile di chiamare in causa il presidente di uno stato a cui l’Europa doveva e deve servitù.

A differenza di Kennedy, Hammarskjold mantenne un senso realistico delle cose e propose a Tsombé un incontro per arrivare ad un compromesso ancora possibile fra le parti. L’incontro sarebbe dovuto avvenire il 18 settembre 1961, anche per definire il rilascio delle centinaia d’irlandesi in custodia della gendarmeria katanghese dopo la sconfitta militare subita alcuni giorni prima. Il faccia a faccia, forse risolutore, non avvenne mai poiché l’aereo su cui viaggiava il Segretario ONU esplose “misteriosamente in volo”.

La parabola di Mobutu

Un chiaro omicidio su commissione, per impedire che si potesse giungere ad un accordo non gradito oltre oceano. Per abbattere i sogni del Katanga e del possibile, ordinato sviluppo del Paese, Mosca puntò su Patrice Lumunba e perse la partita: primo ministro per soli tre mesi, finì assassinato, il 17 gennaio 1961, ad Elisabethville, in un comprensibile regolamento di conti politico, ispirato da Mobutu.

Washington scommise invece su quel generale Mobutu che, nel 1965, con un colpo di stato s’impadronì del potere, mantenendolo per 32 anni. Una scelta astuta che assicurerà agli USA una lunga continuità d’interessi economici.

Dopo la disfatta di Jadoville, le truppe ONU, riorganizzatesi ed ulteriormente rafforzate in uomini ed armamenti, il 5 dicembre 1961 passarono al contrattacco, nell’operazione Unokat, forte di 5.000 soldati indiani ed un massiccio supporto di artiglieria ed aviazione, riusciranno a prendere la capitale del Katanga, dopo pesanti combattimenti fra le strade.

Negoziato inaccettabile

Ne seguì un negoziato politico fatto di minacce e sanzioni, fra Tsombé, il governo centrale di Leopoldville e le Nazioni Unite. Un negoziato inaccettabile che portò Tsombé a rompere le trattative il 19 dicembre del 1962. A quel punto i caschi blue ripresero l’offensiva che li portò alla resa del colonnello mercenario Norbert Muke, avvenuta il 6 febbraio 1963, dopo un ultimo tentativo di resistenza dei suoi fedeli gendarmi di colore e di quanti, fra i combattenti bianchi, erano ancora rimasti sul posto.

Finita, nel sangue, la secessione del Katanga, Tsombé prese la via dell’esilio, prima in Rhodesia, poi in Spagna, sotto la protezione del generale Franco. Lui via, nel Congo si riaprì il baratro della guerra tribale e della caccia all’uomo bianco, fosse suora o missionario, in quella logica primitiva di sangue in cui gli africani, forse per indole genetica, hanno bisogno di bere per colmare il loro senso d’innata inferiorità verso l’uomo bianco.

Il Congo nel Caos

Un anno dopo, preso atto dell’ingovernabilità del Paese da parte dell’appena costituita Repubblica Democratica del Congo, Tsombé verrà richiamato come Primo Ministro ma le sue politiche autonomiste rimarranno non gradite a Washington che attiverà il proprio, fedele cane da guardia Mobutu nel colpo di stato dell’ottobre 1965.

Tsombé riprese allora la via per Madrid ove non arriverà mai; il suo aereo verrà dirottato su Algeri da un agente segreto e li incarcerato.

A questa notizia i mercenari di Denard e Schramme, da lui richiamati, nel 1964, per sopprimere la rivolta dei Simba agli ordini del sanguinario leader marxista Mulele, si ribelleranno chiedendone la scarcerazione e l’estradizione nel suo paese natale.

Ma gli ordini che vengono “dall’alto” sono diversi: Tsombé è troppo pericoloso per il suo carisma, per la sua visione non allineata, per l’esempio che può dare agli altri leader africani in attesa di conquista: deve morire e ciò avverrà, per un “arresto cardiaco”, il 29 giugno ad Algeri a cui nessuno crederà.

La conclusione dello sporco affare

Lo sporco affare del Congo si poteva considerare finalmente concluso. La storia sarà quella di sempre, tragica, implacabile, perversa: se ti metti contro quella statua che si erge nell’isola di Liberty, nella baia di New York, nei riflettori di una democrazia imperialista e senza scrupoli, ne paghi il prezzo, non sono ammessi sconti a chi minaccia i suoi interessi.

Nel contesto generale del neocolonialismo finanziario, imposto all’Africa tutta, risalta l’aspetto patetico di quell’ Unione Sovietica che s’illudeva di essere alternativa ma che, in pratica, era solo delegata a fare quel lavoro sporco che lui non voleva fare.

A giochi avviati, per chiudere definitivamente la partita, serviva una forza d’impatto economico tale che Mosca, chiusa in un sistema socializzato, non poteva avere. Il capitale americano, nella sua immensa potenzialità, lo sapeva bene… Bisognava solo avere la pazienza di aspettare il Boris Elsin di turno; poi tutto sarebbe tornato a dama.

È per questo che parlo del Congo come di uno “sporco affare”; una vittima designata, in mano ad avvoltoi che l’hanno usata, per un disegno egemonico spietato. Ed allora, rispetto agli sciacalli, ben vestiti del mercato azionario globale, preferisco difendere la scelta di quei ragazzi che, con una sacca al collo, pochi soldi in tasca ed una spilla di parà sul bavero, prenderanno un treno per Bruxelles, in cerca di un ingaggio per una guerra di cui, pur sapendone poco, erano certi che li avrebbe resi padroni del proprio destino, nel fascino di un’avventura inaspettata.

Enrico Maselli