Se in Brasile le prefiche democratiche gridano al pericolo fascio-bolsonarista – sì, ormai è questa la sigla affibbiata a coloro che hanno manifestato la propria ostilità al governo Lula – nella confinante Bolivia, il governo del presidente Luis Arce reprime le proteste antigovernative, utilizzando come forza d’urto anche militanti del MAS – Movimiento al Socialismo – il partito maggioritario di tendenze socialcomuniste che fa capo all’ex presidente Evo Morales, il cocalero.
Così chiamato per la sua origine di capo sindacalista dei coltivatori di coca, usata ufficialmente per scopi leciti ma che alimenta un commercio clandestino destinato al mercato degli stupefacenti.
Ricordiamo che Morales, nel 2016, in vista delle elezioni del 2019, aveva tentato di legittimare, affidandosi a un referendum popolare, la propria pretesa di presentarsi candidato per la quarta volta consecutiva (la costituzione non permette neppure una rielezione consecutiva), dopo i mandati ottenuti nel 2004, 2009 e 2014.
Finisce l”era di Evo Morales
Per la prima volta da quando aveva assunto la guida del paese, le urne decretarono la sua sconfitta, seppur con un margine ridotto. Morales non se ne diede per inteso e investì della questione la Corte costituzionale che, composta da suoi fedelissimi, per l’ennesima volta con un imbroglio giuridico autorizzò la sua candidatura.
Le elezioni dell’ottobre 2019 gli diedero la vittoria ma sollevarono immediatamente dubbi di frode, che fu sostenuta anche dall’osservatore dell’OSA (Organizzazione degli Stati Americani). La sollevazione popolare che ne seguì spinse l’opposizione e l’esercito a chiedere le sue dimissioni, prontamente accettate e seguite dalla fuga in Messico prima e in Argentina poi.
Fu Jeanine Áñez Chávez, rappresentante dell’opposizione, ad assumere la presidenza ad interim, per la durata di un anno fino a quando le nuove elezioni, nel 2020, diedero la vittoria ad Arce, delfino e già ministro di Morales.
La presidenza di Juan Arce
Ciò non ostante, la continuità pare essersi spezzata. All’interno del MAS si sono formate due correnti, fortemente ostili fra loro, quella dei renovadores, che fanno capo al neopresidente e quella degli evistas fedeli a Morales.
Il quale, subito dopo la vittoria di Arce, ritornato in patria dal suo esilio volontario in Argentina, manifestò l’intenzione di imporre la propria linea e suoi uomini di fiducia nei principali incarichi ministeriali; ed è qui che ha avuto inizio una crisi all’interno del partito, con reciproche accuse, tra le quali quella, rivolta ai primi e ad Arce in particolare, di tradimento.
Tra le questioni oggetto della disputa l’impegno del neopresidente di realizzare il censimento nel dipartimento orientale di Santa Cruz, in ciò contestato dal suo predecessore.
Santa Cruz, la spina nel fianco di Morales
Si tratta della regione più prospera della Bolivia, quella economicamente trainante, con un territorio pari a un terzo dell’estensione nazionale e una percentuale di popolazione di discendenza europea di molto superiore alla media del paese. E dove il MAS, Morales e poi anche Arce sono sempre stati sconfitti elettoralmente.
Il governo e le istituzioni locali da tempo reclamavano un nuovo censimento – l’ultimo risale a tredici anni fa – per la sottostima della popolazione rispetto al suo reale numero, con conseguenze di sotto-rappresentanza parlamentare e di minor contributi da parte dell’autorità centrale.
E, soprattutto, con effetti sull’aggiornamento degli elenchi elettorali, visto che a votare ci vanno decine di migliaia di morti, con un sistema di voto elettronico che, importato dal Venezuela, favorisce ovviamente chi lo maneggia.
Proteste e repressioni
Proprio per reclamare un censimento immediato, rispetto a quello annunciato da Arce per il mese di marzo 2024 in vista delle elezioni generali del 2025, nella capitale del dipartimento, Santa Cruz de la Sierra, era iniziata a novembre scorso un’ondata di proteste, organizzate da comitati civici locali, che avevano portato a scontri con la polizia e, soprattutto, con militanti del MAS che, armati di bastoni, fiancheggiavano gli agenti e aggredivano i manifestanti antigovernativi.
A fine anno seguiva l’arresto del governatore di Santa Cruz, Luis Fernando Camacho, con l’accusa di una sua presunta responsabilità nel “golpe” dell’ottobre 2019.
La medesima accusa aveva colpito Jeanine Áñez Chávez, insieme con alcuni ministri e ufficiali delle forze armate, tutti arrestati nei primi mesi del 2021, poco dopo la vittoria di Arce, per cospirazione e terrorismo.
La tardiva accusa a carico di Camacho (quasi due anni dopo quelle formulate contro gli altri) appare pretestuosa, visto che colpisce il più tenace oppositore del governo e, con lui, una regione che ha dimostrato grande capacità di mobilitazione; come dimostra il cabildo (ossia una manifestazione aperta al popolo, ma che originariamente era una sorta di consiglio municipale composto dai più eminenti personaggi della città) tenutosi nella capitale il 13 novembre che ha visto la partecipazione di oltre un milione di persone.
Timori di scissione
Dimostrazione di forza o di paura? L’arresto del governatore cruceño è iniziativa di Arce o è frutto di pressioni provenienti da ambienti – interni o stranieri – che lo circondano e che condizionano le sue scelte?
Fatto sta che i promotori del cabildo, il 13 novembre, hanno formulato alcune precise richieste.
Una legge che approvi immediatamente il censimento, applicando tutte le conseguenti misure di carattere elettorale ed economico; la convocazione di una commissione costituzionale che ridefinisca i rapporti fra lo Stato e il dipartimento di Santa Cruz; un appello agli altri dipartimenti boliviani affinché si uniscano alle richieste riguardanti il censimento e “se entro 72 ore essi non si uniranno realmente a questo reclamo, allora vorrà dire che la lotta sarà per conto proprio a beneficio dei boliviani che vivono e lavorano a Santa Cruz”.
Una serie di avvertimenti importanti. Anche perché è la Bolivia ad aver bisogno di Santa Cruz, non il contrario.