Dietro la Uno bianca, nessuna camicia nera. Forse, la giacca… A 29 anni circa dall’arresto, Roberto Savi si ricorda di essere stato un “estremista di destra” e di aver compiuto, alla fine degli anni ‘70, piccoli attentati in quel di Rimini.
Curiosamente, queste dichiarazioni “spontanee” sono state rilasciate dal capo della “Uno bianca” un anno fa, quando la Procura di Bologna era già intenta – e da un anno – a verificare i documenti che sostanziano l’esposto presentato ai magistrati circa le protezioni di cui i Savi avrebbero goduto nei sette anni della loro attività criminale.
Documenti che dimostrano cose ben diverse da quelle che il killer oggi racconta e che presto, con un libro alquanto puntiglioso, saranno a disposizione dell’opinione pubblica. Tornando a Roberto e alle sue confessioni, che dire? In primo luogo, che sono riferite a fatti lontani nel tempo e, sopra a tutto, a persone rigorosamente morte.
Qualsiasi verifica, quindi, è praticamente impossibile.
In secondo luogo, prendono l’avvio da una notizia o da una concatenazione di notizie rigorosamente false.
La prima: Roberto Savi fu iscritto al Fronte della gioventù: è notizia che iniziò a circolare già poche ore dopo l’arresto dell’ex-poliziotto e subito smentita, ma che ha tenacemente resistito nella “letteratura” sulla “Uno bianca”.
Si dice nella letteratura, in quanto nessuno degli inquirenti fu in grado di portare la benché minima prova di una tale affiliazione.
E dire che, se fosse stato vero, non sarebbe stato difficile ottenerla, data la precisione delle schedature inerenti i militanti dell’allora Msi-Dn.
E’ quasi grottesco solo il dirlo, ma, negli “anni di piombo” e negli anni ‘80, era più facile che passasse inosservato alle forze dell’ordine un vero terrorista di destra, piuttosto che un militante del Fdg o del Fuan.
La strage di Bologna
Basti pensare, per chiarire il concetto, come nel primo ordine di cattura firmato in relazione alla Strage di Bologna, compaiano grosso modo tutti i nomi delle persone coinvolte nei successivi processi imbastiti per quell’evento tragico, tranne uno, quello di colui che sarebbe stato, secondo i giudici, il capo del commando stragista: Valerio Fioravanti.
Come mai non fu identificato in quell’atto? Semplice, perché non essendo mai stato iscritto al Movimento sociale e alle organizzazioni giovanili missine, il suo profilo era alquanto sfumato agli occhi di chi teneva sotto controllo quell’area.
Se Roberto Savi fosse stato nel Fdg, alla Digos di Rimini se ne sarebbero dovute trovare ampie tracce.
“Famiglia” di destra?
La stessa “ideologia di destra” dei componenti della famiglia è un qualcosa di alquanto nebuloso.
Certamente ebbe simpatie di destra il padre dei Savi, Giuliano, il quale, però, a sua volta, non volle mai iscriversi alla “fiamma” e, contrariamente a quanto si legge ancor oggi, non fece parte di alcuna formazione della Repubblica sociale.
La Rsi fu uno Stato e si organizzò come uno Stato e Giuliano Savi, in piena età di leva nel ‘43, se si fosse veramente arruolato, risulterebbe dalla “matricola militare”. Ma non risulta. Inoltre, la vita personale dei diversi componenti della banda non si accordava, già all’indomani degli arresti, alla narrazione – razzisti, nazisti, cultori della superiorità della razza ariana – che addirittura precedette la loro scoperta: Alberto cercò di farsi raccomandare per cosa di suo interesse da un noto parlamentare democristiano; Pietro Gugliotta frequentava una “entreneuse” slava; Fabio era fidanzato con una rumena; Roberto addirittura aveva da poco piantato la moglie per andare a convivere con un’ex-prostituta nigeriana, riscattata dai suoi protettori.
Narrazione e realtà striderono alquanto, quando si dovettero mettere in ordine le carte per il processo che li condannò quasi tutti all’ergastolo.
Dunque, che significato dare oggi, alle parole di Roberto Savi?
L’ergastolano – è cosa nota – da tempo tenta di ottenere i benefici che, dopo oltre 30 anni di reclusione (nel conteggio della detenzione complessiva bisogna tener conto anche degli indulti, degli sconti di pena e della buona condotta, in base ai quali i 28 anni di carcere effettivo sono formalmente più di 35, forse quasi 40), spettano a chi è stato condannato con l’ergastolo semplice e non con quello “ostativo”.
C’è da superare, però, l’ostacolo dei familiari delle vittime che, con molta attenzione, non mancano mai di denunciare il pericolo della loro liberazione, in occasione delle varie, tristi ricorrenze dei loro crimini.
Qualche “confessione” che dia il senso di un chiarimento dei moventi che avrebbero animato la “Banda della Uno bianca” – magari nel senso auspicato da qualche settore della politica e da qualche parente o da qualche legale un po’ più politicizzato di altri – potrebbe portare a un ammorbidimento di queste posizioni.
In fondo, uno dei quattro condannati all’ergastolo è già stato liberato – Marino Occhipinti -, salvo, poi, essere stato nuovamente arrestato per atteggiamenti violenti nei confronti della sua compagna. E anche il più piccolo dei fratelli, Alberto, è uscito qualche volta in permesso dal carcere.
Nascondere a Verità !
L’importante, in tutto questo, è che Roberto e Fabio continuino a celare il vero segreto della “Uno bianca”, quello che dovrebbe spiegare come mai un gruppo facilmente identificabile di carabinieri di Bologna e forse non solo di Bologna, a partire dai loro primissimi e gravissimi crimini, si adoperò con costanza e precisione a mascherarne l’identità agli altri investigatori.
E non sono illazioni, queste.
Non sono “teoremi” radicati in chissà quale “logica dietrologica”: sono fatti che emergono chiaramente dalle carte che anche i magistrati che condannarono i Savi ebbero sotto gli occhi e non videro o non vollero vedere. Carte che rendono ancor più odiosa la memoria di ciò che accadde, tenuto conto di quanto sangue proprio dei carabinieri fu versato dai Savi. E sono carte che da due anni la Procura sta finalmente vagliando. Si attendono solo le risposte. Si spera convincenti.