Governo Meloni, la prima sfida è con Mattarella

Governo Meloni, la prima sfida è con Mattarella –  L’episodio sembra del tutto dimenticato, anche grazie al miracoloso – o semi-camorristico – recupero di consensi operato da Giuseppe Conte a favore del Movimento 5 Stelle nel Sud Italia: la defenestrazione preventiva di Paolo Savona dal Ministero dell’Economia operata dal Quirinale, all’indomani delle precedenti elezioni. Il declino politico dei “grillini” iniziò proprio in quel momento, nel giorno stesso della “vittoria”, quando accettarono il diktat di Sergio Mattarella, risolvendosi a “parcheggiare” l’economista nel dicastero poco significativo degli Affari europei. Irrompendo nelle due Camere con un battaglione di “vaffanculisti” decisi – a parole – ad aprire il Parlamento come una “scatoletta di tonno”, Luigi di Maio e tutti i suoi si lasciarono scartare come una caramella sul e dal “Colle più alto”, venendo brutalmente richiamati alla realtà. E a una realtà durissima, perché del tutto fuori dalla Costituzione. Da questo punto di vista, fa ancora più impressione il fatto che Beppe Grillo abbia accettato la riconferma per un secondo mandato del presidente della Repubblica che ostacolò così decisamente le istanze più innovative e “rivoluzionarie” del suo movimento.

La Costituzione

Perché “fuori dalla Costituzione”? Perché il secondo comma dell’articolo 92 della nostra Carta fondamentale ha un testo che difficilmente può lasciare adito a dubbi: “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri”. Ora, se si dà per scontato che la nomina del premier non può che originare dalle elezioni e da quanto i partiti di una maggioranza comunicano al capo dello Stato, durante il rito delle “consultazioni”; appare chiaro come, nella fase successiva, il Quirinale debba accettare la lista di ministri stilata dal presidente del Consiglio incaricato. Un’accettazione passiva? Il Presidente della Repubblica non può mettere bocca sulla lista e sulle persone che la compongono? Certamente può farlo, ma, in assenza di una specifica indicazione su questo processo di nomina, solo ed esclusivamente nel solco che la Costituzione traccia a proposito della funzione legislativa che appartiene alle Camere e che è pur sempre la “attività regina” del Parlamento e l’espressione più genuina dell’esercizio (delegato) della sovranità che appartiene al popolo. E cosa dice la Costituzione in merito (articolo 73)? Dice che è il capo dello Stato a “promulgare” leMeloni leggi, ma che queste vengono discusse e approvate dal Parlamento. Promulgare – verbo di chiare origine latina introdotto nel Trecento nel Volgare e, poi, nell’Italiano – significa letteralmente “spremere fuori”, con un chiaro riferimento alla mungitura dei bovini. In senso lato, significa “rendere pubblico”. Dunque, il capo dello Stato può solo rendere pubblica una legge, non modificarla a suo piacimento. Affinché non ci fossero dubbi, nel successivo articolo 74 si precisa: “Il Presidente della Repubblica, prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione. Se le Camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere promulgata”. Quindi, non è un mero “notaio”, il presidente della Repubblica, ma non ha alcun potere di contrapporsi al Parlamento.

Il Quirinale

Avendo vinto il Centrodestra, è bene abbandonare gli anglicismi: il Quirinale può esercitare solo una “persuasione morale”, far notare come qualcosa, in una legge, non convincerebbe o non apparirebbe opportuno, ma se il Parlamento gliela rispedisce identica deve promulgarla. Anche perché l’eventuale dichiarazione di illegittimità di un atto legislativo è competenza esclusiva della Corte costituzionale (articolo 136). Perché mai, allora, dovrebbe essere diverso, il potere del presidente della Repubblica, nel processo di formazione della squadra di governo? In base a quale prerogativa il Quirinale potrebbe negare la nomina a ministro di chicchessia o pretendere uno o più posti per persone di “sua” fiducia? Certo, può sollevare dubbi, proporre, ma se il premier insiste, dovrebbe limitarsi a ratificare le scelte di chi è stato votato dalla gente.

La Maggioranza Qualificata

Per tanto, dopo questa premessa, si può andare dritti alla conclusione, riferita alla strettissima attualità e alla campagna di stampa – La Repubblica, La Stampa, Il Corriere e altri giornali – che già farebbe intendere l’intenzione di Mattarella di mettere pesantemente bocca sulla lista a cui starebbe lavorando Giorgia Meloni. Il passaggio è delicato e fondamentale al tempo stesso, poiché l’indiscussa vincitrice delle elezioni si giocherà subito una parte significativa della sua credibilità, in questa prima partita: o dimostrerà astuzia tattica e inviolabile autonomia, oppure rischierà di mettersi nelle stesse condizioni in cui si misero i “grillini”.

L’astuzia tattica – una dote che sarebbe difficile negare alla leader di Fratelli d’Italia – si esprime in questo caso con la previsione delle intenzioni di Mattarella, evitando di offrirgli su un piatto d’argento la possibilità di contestare questo o quel nome, selezionando personalità su cui il Quirinale sia costretto, anche a denti stretti, a un sorriso di approvazione. L’autonomia, invece, è pura manifestazione di volontà e carattere, da esibirsi nel caso in cui, pretestuosamente, Mattarella dovesse tentare di mettere i bastoni tra le ruote al premier incaricato. Il che non è da escludere, dal momento che, a ben ragionare, Paolo Savona non aveva nulla, nel suo curriculum personale, da farsi perdonare o di cui vergognarsi.

L’unico risultato che la Meloni e il Centrodestra non hanno raccolto nelle urne, domenica scorsa, è la “maggioranza qualificata”, quella che sarebbe stata utile e sufficiente per realizzare rapidamente eventuali riforme costituzionali e istituzionali, a partire dal Presidenzialismo. Però, l’elettorato ha dato a Fratelli d’Italia e ai suoi alleati la forza necessaria a non farsi imporre il “presidenzialismo abusivo” che dovettero subire Conte e Matteo Salvini nel 2018. Se si replicherà questo “braccio di ferro” e, nel caso, da chi dei due cederà, tra Quirinale e Palazzo Chigi, si capirà molto del futuro prossimo del Paese.