Meloni e la Destra cannibale

Meloni e la Destra cannibale

 

Meloni e la Destra cannibale – Avevamo conosciuto la Destra storica e quella liberale. Poi, la Destra pugilistica fascista, come la definì Benito Mussolini alla Camera.

Dopo la guerra, nell’ordine, apparvero la Destra qualunquista, quella monarchica e, poi, la Destra missina. Esistette per un breve periodo anche una Destra democratica nazionale.

Dagli anni ’80, esistette solo la Destra nazionale di Giorgio Almirante, Gianfranco Fini e Pino Rauti. Poi, per usare l’espressione di Pinuccio Tatarella, con Alleanza nazionale si poteva parlare di Destracentro, nel senso che il nuovo partito, partendo da posizioni simil-missine, cercava di aggregare nuove forze dell’ex-mondo “moderato”.

Dopo la Destra isterica

A voler definire anche il partitello con cui Fini è naufragato, si potrebbe parlare di Destra isterica.  Insomma, di Destre se ne sono viste tante, ma non tutte, a quanto pare.

Esiste, infatti, anche una Destra cannibale, antropofaga, che s’insinua nel corpo politico di coalizione e lo divora dall’interno, ma senza crescere ulteriormente in dimensioni.

Si mangia l’ospite, ma non riesce a diventare più grande dei suoi competitori.

Il risultato della Sardegna oggi, dal punto di vista dei partiti maggiori dell’area governativa, è esattamente identico a quello del 2019: complessivamente, 24 e spicci per cento (per i più pignoli: 24.60 nel 2019, 24.30 in questa tornata).

Solo che, a fronte di un 11.40 precedente, la Lega fatica a raggiungere il 3.8; Forza Italia passa dell’8.04 al 6.5; i meloniani dal 4.72 al 14.

Il Titanic Meloni

Per altro, in Sardegna, è proprio Giorgia Meloni ad aver portato allo schianto tutta la coalizione, imponendo un candidato che ha raccolto un significativo pugno di voti in meno – circa il 4% del totale – rispetto alla coalizione.

Già, perché non ostante la Sinistra sia tornata maggioranza nell’isola, la corsa solitaria di Renato Soru, sottraendo un 8% circa alle potenzialità della cordata guidata da Pd e 5 Stelle, avrebbe permesso ad un altro candidato del Centrodestra di portare a casa comunque un successo.

Invece, no. Fratelli d’Italia porta al disastro l’intera alleanza, ma ne fagocita i consensi.

Uno “stile” politico

E non è una bizzarria della politica, ma un risultato fedele allo stile politico di quel partito, la cui classe dirigente è sempre più autoreferenziale e proiettata solo sul risultato personale dei singoli – a qualsiasi livello: da Giorgia Meloni a Paolo Truzzu, fino all’ultimo consigliere o aspirante tale del più recondito comune italiano -, i quali si preoccupano solo dell’elettorato fidelizzato e delle esigenze – più o meno clientelari che ne cementano la fedeltà – fregandosene altamente degli elettori che non li votano o che proprio non ci vanno più ai seggi.

Ai tempi del primo Centrodestra, la forza elettorale dei tre partiti era del 43%, con un apporto del Ccd dello 0.1%, cioè, nullo. Il Centrosinistra era fermo al 34%. Il resto andava diviso tra una miriade di sigle centriste, prima tra tutte quella di Mariotto Segni. Due anni dopo, pur perdendo per la divisione dalla Lega, la forza del Centrodestra aumentò di 10 punti, raggiungendo la maggioranza assoluta al 53%, ma perdendo nei collegi per la scelta isolazionista di Umberto Bossi.

Romano Prodi, invece, vinse col solito 34 per cento della Sinistra.

Astensionismo di centro destra?

Ciò permise a Tatarella di formulare una tesi, secondo la quale la Sinistra, sola o con parte dei centristi, in Italia non poteva contare mai su oltre un terzo degli elettori.

Cosa è cambiato da allora? Tante cose, ovviamente, ma specialmente il fatto che in quel 50 per cento di astensionisti ci sono tutti quei voti potenziali non di sinistra che oggi consentono a Elly Schlein e ad altri prima di lei di essere circa il 50 per cento dei voti validi (o meglio: il campione di uno schieramento che raccoglie, ma non sempre insieme, il 50% circa dei voti).

Il Centrodestra, invece, è alla metà esatta di quei consensi di un tempo. In prospettiva, le cose non potranno che peggiorare, dato che la Meloni fa quasi un sol boccone di Matteo Salvini e più lentamente sgranocchia Forza Italia, ma solo la Forza Italia di Antonio Tapin Tajani, lontano anni luce dal partito di Berlusconi al 30 per cento con An e Lega in massima o buona salute.

Ma per quanto tempo ancora Forza Italia e Lega saranno disposti a svenarsi per soddisfare le brame elettorale del “cerchione” magico dei parenti, degli amici, degli amici degli amici della Meloni?

Lo spoglio in Sardegna è più lungo di una messa cantata medievale e, al momento di andare in stampa, pur essendo ormai quasi certa la vittoria di Alessandra Todde (in vantaggio di 1657 voti con 134 sezioni su 1844 ancora da conteggiare), non è possibile avere i dati di preferenza dei candidati delle liste.

I “recordman” della Meloni

Di una cosa, però, siamo certi, pur scrivendone adesso al buio: i candidati di Fratelli d’Italia saranno “recordman” e “recordwoman” delle preferenze, a dimostrazione di una politica fatta solo per interesse personale, per ambizione privata, per quanto legittima, sviluppata da chi non si preoccupa se votano molti o pochi cittadini e se, votando, questi scelgano la propria coalizione piuttosto che quella avversaria: pensano solo al partito, anzi, al fatto che scrivano sulla scheda un nome piuttosto che un altro.

Con una smania – anzi, per tornare all’inizio: con una fame – di approdare a un seggio utile solo a resuscitare come partito importante addirittura i 5 Stelle di Giuseppi Conte.

Massimiliano Mazzanti

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