Rhodesia: l’ultima Vandea dell’uomo bianco

Rhodesia: l’ultima Vandea dell’uomo biancoRhodesia: l’ultima Vandea dell’uomo bianco – Con il volgere al termine del XIX secolo, nell’Africa Australe esisteva ancora una vasta regione inesplorata ove l’uomo bianco non aveva ancora messo piede se non in maniera saltuaria, tramite missionari ed esploratori come David Livingstone. Di contro a Mozambico ed Angola in mano portoghese e Sud Africa, Botswana e Namibia protettorati inglesi, le nazioni che poi prenderanno il nome di Zambia, Rhodesia (oggi Zimbabwe) e Malawi, erano popolate e dominate dalle sole tribù africane native come Shona, Matabele e Nyanja.Tutto questo cambierà nel 1890 a seguito di un atto di puro banditismo economico militare da parte del magnate britannico Cecil Rhodes che intendeva estendere il proprio impero commerciale, a partire dal Sud Africa ove aveva fondato la tuttora famosa multinazionale De Beers, specializzata nello sfruttamento delle ingenti risorse minerarie presenti nel paese.

Una ferrovia che taglia l’Africa

Le sue capacità economiche erano talmente rilevanti da permettergli di costruire, da solo, la ferrovia fra Città del Capo e Kimberly, sede di un immenso giacimento di pietre preziose. A soli 35 anni già controllava il 90% del mercato di diamanti mondiale ed aveva iniziato ad espandersi anche in quello dell’oro. Oltre ad essere un abilissimo uomo di affari, Rhodes era anche un idealista che vedeva il Regno Unito come unico dominatore del continente nero, coltivando il sogno di riuscire a completare, nell’arco della sua vita, un percorso su ferro che unisse la punta estrema dell’Africa, cioè Città del Capo al Cairo.

I primi pionieri

Seguendo questo immaginario politico, nel 1890, a nome della privata British South Africa Company, mette insieme una colonna di alcune centinaia di pionieri armati ed attraversa il fiume Limpopo a nord per colonizzare, in nome dei suoi interessi e della regina Vittoria, quei territori ove, seppure predominante l’etnia Shona, il potere era in mano a re Lobengula, capo della tribù guerriera minoritaria dei Matabele, vicina di sangue degli Zulù; con lui Rhodes stipula un contratto truffaldino, sottraendogli il controllo sulle risorse minerarie in cambio di qualche fucile ed un vecchio vascello a vapore.

Dopo qualche anno, Lobengula si ribellerà all’accordo estorto, scatenando una sanguinosa guerra contro i coloni che, forti di organizzazione ed armamento superiore, riusciranno ad avere la meglio, sottomettendolo. A vittoria conseguita e pace ristabilita, fedele al suo sogno, Rhodes finanzierà la costruzione di una ferrovia fra Johannesburg e la città in essere di Bulawayo, parliamo di quasi mille chilometri.

L’impossibile era diventando realtà. In soli quattro giorni di viaggio si sarebbero potuti percorrere oltre 2.000 chilometri nel cuore dell’Africa, comodamente seduti in una carrozza ristorante per poi riposare in quella letto. Il nuovo territorio conquistato prenderà il nome di Rhodesia dal suo fondatore.

White tribe

Arriviamo agli anni Settanta, la Rhodesia del Sud diventa la contea bianca dell’Africa Australe: un pugno di uomini bianchi tenaci rifiutano di essere considerati coloni ma, al pari degli Afrikaner al loro sud, dei nativi loro stessi, seppure di pelle bianca, con nessun paese alternativo di provenienza verso cui riparare. Sono l’orgogliosa e combattiva “white tribe” che ha scelto il proprio destino in Africa, determinati a difenderlo in armi.

Essere però in 300.000 a comandare su di una popolazione totale di 8 milioni, rende la proporzione difficile da far digerire alle imperanti regole dell’algebra democratica ed infatti finiscono assediati dall’ostilità del mondo occidentale e l’aggressione aperta di quello socialista e terzo mondista.

Commonwealth britannico

Fino all’aprile 1963 il Paese apparteneva al Commonwealth britannico, in quanto parte della Federazione del Nyasaland e della Rhodesia, creata nel 1953, alla cui precoce disintegrazione, sotto la pressione del nascente nazionalismo africano, seguì la nascita di due stati indipendenti: lo Zambia (Rhodesia del Nord) ed il Malawi (Nyasaland). Alla Rhodesia del Sud fu invece negato lo stesso privilegio, essendo guidata da un governo bianco minoritario che praticava la politica del voto qualificato verso i cittadini di colore, secondo linee di rappresentanza tribale e non il suffragio universale, ritenuto sistema di rappresentanza inaffidabile verso una popolazione largamente analfabeta ed ancora dedita alla stregoneria ed a pratiche magiche.

Si allargano le violenze

Ad influenzare questa scelta estrema contribuirono, in maniera determinante, i racconti, portati sulla pelle viva, dai profughi bianchi in fuga dai massacri in atto nel vicino Congo, conseguenza di una demenziale, prematura concessione di autonomia, da parte del governo belga, ai nativi di colore totalmente impreparati a riceverla. Racconti di saccheggi; omicidi; stupri mutilazioni subite erano sulle pagine di tutti i giornali rhodesiani, creando un patos di diffidenza ed apprensione verso la capacità dei neri a sapersi autodeterminare pacificamente.

La dichiarazione di indipendenza

Svanita ogni possibilità d’intesa con il governo laburista inglese di Harold Wilson, la Rhodesia del Sud dichiarò la propria indipendenza, il giorno 11 Novembre 1965 e scelse in Jan Smith il proprio leader ed in Salisbury la sede del governo. Questo atto passerà alla storia come UDI (Unilateral Declaration of Indipendence).

Fu l’inizio della fine. La reazione di Downing street non si fece attendere: immediata ed isterica. Blocco navale di Beira, nel Mozambico allora portoghese, porto principale di transito delle merci rhodesiane; richiesta di sanzioni economiche da parte delle Nazioni Unite; minaccia d’intervento armato, anche se d’improbabile attuazione per il rifiuto opposto dai soldati inglesi all’eventualità di uno scontro ritenuto fratricida.

La lunga mano sovietica

Seguì, inevitabile, l’insorgere del fenomeno di terrorismo strisciante, alimentato dalle organizzazioni nazionalistiche africane, le cui basi di partenza avevano trovato la protezione dello Zambia, al di là del fiume Zambesi. La guerriglia, contro il governo “illegale” di Salisbury, avviene sotto la regia di gruppi politici come lo ZANU (Zimbabwe African National Union) di etnia Shona ed ispirazione maoista e dello ZAPU (Zimbabwe Africa People’s Union) di etnia Matabele ed ispirazione moscovita.

Le prime incursioni armate arrivano già nel 1966 ma sono ben contenute dalle nascenti forze di sicurezza fra cui, la presenza di soldati di colore è predominante. Il corpo militare per eccellenza è infatti il 1° battaglione del Rhodesian African Rifles, formato interamente da soldati africani sotto la guida di ufficiali e sottoufficiali europei.

Fino al 1972 la guerriglia fa pochi danni, qualche fattoria isolata assaltata; alcune macchine prese di mira; sporadici attentati esplosivi. Pochi morti fra civili e soldati, tanti fra gli attaccanti. Poi tutto cambia ed inizia la guerra vera e propria in coincidenza con il collasso della presenza militare portoghese in Angola ma soprattutto in Mozambico, con il quale la Rhodesia ha un confine di 800 km, impossibile da controllare una volta diventato ostile, come sarà, a partire dal 1975, sotto la guida del Frelimo (Fronte di Liberazione del Mozambico), il partito marxista giunto al potere che aprirà il proprio territorio alle basi operative dei terroristi.

La Rhodesia sotto assedio

Questo ribaltamento drammatico del quadro politico e strategico di tutto l’emisfero dell’Africa Australe, avverrà in conseguenza del colpo di stato del 25 Aprile 1974 a Lisbona (Rivoluzione dei Garofani), eseguito dall’ala “progressista” dell’esercito lusitano su ispirazione del generale Antonio De Espinola e di Henry Kissinger, suo amico e consigliere personale.

Si trattava di una mossa ben studiata che doveva servire ad innestare un sapiente gioco del domino che, dopo Angola e Mozambico, portasse la Rhodesia ad arrendersi, aggiungendo il tassello finale al completamento del mosaico emergente di quel Nuovo Ordine, elaborato dalle centrali mondialiste di oltre oceano che aveva, nell’accerchiamento del Sud Africa, il suo obiettivo finale.

La fine negli anni 90

Strangolato dalle sanzioni economiche; circondato da paesi ostili: logorato dai disordini interni, sapientemente pilotati da fuori, il governo di Pretoria non poteva durare a lungo e così infatti sarà nel 1994, con l’avvento di Nelson Mandela e del suo partito, l’ANC (African National Congress).

Crollato il bastione bianco; resa docile o dispersa quella Comunità Europea che lo aveva tenacemente difeso, sottraendolo ai giochi speculativi internazionali, le immense risorse minerarie e la strategica “Rotta Del Capo” finiranno finalmente nelle “mani giuste”.

8 anni di strenua resistenza

Nonostante le limitazioni imposte dall’embargo economico totale e l’enormità del terreno di operazioni, l’esercito rhodesiano, composto, nella sua massima capacità di mobilitazione di 70.000 uomini, di cui solo 1.500 effettivi quotidianamente, seppe, nell’arco di 8 anni di guerra, svolgere brillantemente il suo ruolo di contrasto ed eliminazione delle bande di guerriglieri che, forti di 30.000 uomini bene armati e del supporto politico e militare trasversale di Est ed Ovest, tentarono inutilmente la conquista militare del Paese.

Nell’immaginario europeo

Nel mondo della destra anglosassone, l’epopea della Rhodesia veniva vissuta con passione e partecipazione; questa Fort Alamo della resistenza europea destava ammirazione, orgoglio, senso di appartenenza; da qui il forte desiderio di dar loro una mano, con raccolta fondi; pubblicazioni a sostegno della crociata contro l’imperialismo marxismo in atto: una rivista in particolare, la nota “Soldier of Fortune”, si distingueva per i suoi ottimi servizi fotografici, atti a raccontare gli eventi secondo una prospettiva realistica, in quanto vissuta sul campo e per le sue sollecitazioni a dare un aiuto diretto al paese assediato.

Volontari da tutto il mondo

Raccogliendo questo richiamo a dare una mano a quella, percepita come l’ultima Vandea dell’Uomo Bianco, più di 1.000 volontari americani, in maggioranza veterani del Vietnam, si arruolarono nell’esercito rhodesiano creando, addirittura, una loro ambasciata di riferimento a Salisbury, su cui sventolava la bandiera a stelle e strisce con, al centro, un’aquila azzoppata (The Crippled Eagle).

Un centinaio erano poi venuti giù con tutta la famiglia ed era facile sentire il loro slang nei locali pubblici.

Una comunità nella comunità, gioiosa e combattiva come quella maggiore che li ospitava. Un altro migliaio di volontari arrivò, in piccoli e grandi numeri, da almeno altri venti paesi differenti.

Britannici prevalentemente ma anche Francesi, Tedeschi, Danesi, Australiani ed un pugno d’Italiani che andranno ad aggiungersi alle centinaia di ragazzi, in età di leva (18 anni), richiamati, fra i 5.000 connazionali residenti.

Le regole dell’esercito

Chi voleva arruolarsi volontario era benvenuto ma doveva entrare nelle forze di sicurezza, indossarne la divisa, rispettarne la disciplina e condividere la stessa paga di un suo equivalente di grado.

Non vi era posto per mercenari o bande autonome.

Se avessi voluto fare il cane sciolto vi sarebbero stati compagnie di sicurezza private che potevano fare al caso, fornendo protezione a pagamento a chi poteva permetterselo; farmista o Vip che fossero.

Vi era poi un via vai di “turisti militanti” stranieri, magari in tour nel tranquillo Sud Africa che, per atto di avventura e di solidarietà, prendevano un aero d’impulso, per andare a vedere le Cascate Vittoria e visitare l’annesso casinò, lasciandosi alle spalle preziosa valuta straniera, vitale per una Nazione sotto embargo; “dollars for bullets” era lo slogan.

Una grande avventura

Altri ancora affittavano una macchina e si facevano un lungo viaggio, per provare il brivido, una volta attraversato il posto di frontiera di Beit Bridge, di entrare in un paese in guerra e di viaggiare (obbligatoriamente) al seguito di un convoglio protetto dai mezzi armati della polizia ove, strada facendo, il rischio di un agguato o di una mina, poteva anche esserci, alzando così il livello di attenzione ed adrenalina di guidatori e passeggeri in cerca di emozioni forti.

Per i residenti era invece diventata una norma alla quale non ci si faceva più caso; macchina più lenta in testa; distanza da mantenere 100 metri; proibito superare; proibito sparare dai finestrini ad eventuali bersagli ostili ma lasciare ai soli militari il compito dell’ingaggio a fuoco. Tutti i viaggiatori erano comunque armati e ben pronti a derogare dalle regole se l’occasione si fosse presentata.

La Rhodesia non era terra di conigli.

Di certo vi era un poco di Far West nella vita di ogni giorno ma, anche per questo, il Paese aveva un suo potere magico di affascinarti e legarti al suo destino anche se venivi da lontano. Potevi vivere il tuo sogno avventuroso ad occhi aperti e sentirti fiero di appartenere ad una Specie Unica, fatta di Uomini e Donne non disposti a mollare, a farsi sottomettere, ad arrendersi senza combattere, a rinunciare al diritto di ritenersi africani sia pure con la pelle “sbagliata”.

La leva come fattore unificante

Ad aumentare questo fortissimo senso di identità vi era l’obbligo militare per tutti, dai 16 ai 65 anni dovevi fare la tua parte, sia pure part time, chiunque tu fossi nella vita privata; manager od impiegato, direttore di banca od altro; una volta operativo contava il tuo ruolo militare e solo quello: normale quindi, per un manager più anziano, trovarsi a prendere ordini dal suo impiegato più giovane. Questa creava un legame indissolubile che non conosceva classi o caste. Da questa straordinaria esperienza condivisa nasceva un senso assoluto di Comunità.

Un esercito combattivo e preparato

Terminate le ostilità, nell’aprile 1980, erano circa 25.000 i terroristi rimasti uccisi in combattimento contro 1.300 caduti fra le forze governative; le perdite civili ammonteranno a circa 4.000.

Queste cifre da sole descrivono il coraggio, l’abilità e l’aggressività delle forze di sicurezza rhodesiane il cui 80%, merita essere ricordato, era formato da soldati di colore, arruolati su base volontaria.

Eppure, la Rhodesia fu prima messa alla gogna internazionale per il carattere, definito “apertamente razzista” del suo governo e poi strangolata economicamente visto che, batterla sul campo di battaglia, si era dimostrato impossibile, nonostante gli sforzi congiunti di Londra, Washington, Mosca e Pechino.

Mugabe

La fine della Rhodesia avvenne il 18 aprile 1980 a seguito della vittoria “inaspettata” di Robert Mugabe dello Zanu, il leader africano più sanguinario e temuto, nelle elezioni generali imposte dal governo conservatore di Margaret Thatcher a seguito degli accordi di pace di Lancaster House, siglati a Londra nel dicembre 1979.

Si trattò di elezioni falsate, svolte sotto la minaccia di ritorsione verso la poco sofisticata società africana ma a Londra andava bene così; dovevano disfarsi di un imbarazzante fardello politico la cui esistenza minacciava la coesione degli stati associati al Commonwealth e quindi gli interessi economici di fondo.

L’ultima Vandea

Se per farlo fosse bisognato sacrificare qualche centinaio di migliaia di bianchi cocciuti sarebbe stato un prezzo onesto da pagare alla “ragion di stato”. E così cadde l’ultima Vandea Bianca non in un tramonto di sangue come sarebbe stato logico aspettarsi ma per mano della politica e dei suoi giochi viscidi ed ipocriti. La democrazia aveva trionfato di nuovo servendosi del Robespierre africano di turno mentre iniziava, fra l’indifferenza di tutti, la diaspora di 200 mila rhodesiani e le sofferenze, a volte tragiche, di chi vorrà restare nel nuovo stato, ribattezzato Zimbabwe.

Fra le macchine che riparano verso sud vi saranno anche quelle di 5 ragazzi romani, tutti militanti di destra, con una donna e due bambini piccoli a seguito. Ancora una volta i sogni moriranno in una grigia alba di aprile, in una dolorosa nemesi storica.

Enrico Maselli