Si scrive “fascismo”, si pronuncia “Italia”

Leit-motiv della campagna elettorale ormai terminata, le accuse di Fascismo rivolte a Giorgia Meloni e al Centrodestra, da una parte, e le rassicurazioni della “accusata” e dei suoi alleati circa l’inesistenza del problema. La leader di Fratelli d’Italia, da questo punto di vista, ha sgomberato il campo da ogni equivoco, ricordando di non aver mai contestato in alcun modo, quando era in An, le posizioni di Gianfranco Fini in materia. Da più parti, si è sottolineato come questo sia stato un dibattito surreale, lontanissimo dai problemi degli italiani e, in particolare, come il tema abbia finito per risultare un “boomerang” per Enrico Letta, al quale dev’essere sfuggito d’aver offerto alla Meloni il centro del “teatrino politico” per l’intera durata della contesa.

Data la veemenza del dibattito, però, non è lezioso chiedersi: è veramente così inutile e lontano dai problemi dell’attualità, l’Antifascismo?

Per rispondere, è necessaria una sintesi della storia recente, magari non breve, ma essenziale per cogliere la profondità dell’argomento.

L’antifascismo: origini e conseguenze

L’Antifascismo propriamente detto, in Italia nasce nel 1924, quando la già aspra dialettica politica tra il primo governo di Benito Mussolini e le opposizioni si trasformò in insanabile contrapposizione ontologica con la “scissione dell’Aventino”. Fu un errore anche dal punto di vista di chi diede vita a quell’improvvida manovra parlamentare, in quanto agevolò e non di poco la successiva trasformazione dell’esecutivo nominato dal Re secondo le regole dello “Statuto Albertino” in guida del nuovo “regime totalitario”. Mussolini, quasi alle corde per la crisi conseguente all’assassinio di Giacomo Matteotti, colse al volo la patata scagliatagli dalle opposizioni – convinte di potergli far bruciare le mani -, e si risolse a prendere tutto il potere, con le “leggi fascistissime” del 1925. Da quel momento, l’Italia si divise in due: antifascisti – divisi tra popolari, socialisti, comunisti e liberali -, da una parte; fascisti dall’altra. Quel che non capirono i primi, però, è che escludendosi dallo Stato e dalle sue istituzioni – volontariamente prima, costretti poi -, gli antifascisti regalarono a Mussolini la possibilità di far coincidere la sua fazione politica con l’intera Italia, intesa nella sua dimensione pubblica, di comunità nazionale.

Con quale conseguenza? Con la conseguenza di trasformarsi, gli antifascisti, in “senza patria”, costringendosi a cercare all’estero quella comprensione che nel Paese, specialmente nella lunga stagione del “consenso” a Mussolini, non esisteva praticamente più per loro.

Dunque, da contrapposizione tra partiti nella stessa cornice politica e istituzionale, l’Antifascismo si trasformò in una leva della politica internazionale; uno strumento che i paesi che avevano accolto gli “esuli” avrebbero potuto usare a tempo debito non tanto contro Mussolini, il quale era pure considerato un grande statista in quelle stesse nazioni che accoglievano i suoi vecchi nemici, ma contro l’Italia intera.

L’esempio più lampante di questo volontario asservimento dell’Antifascismo agli interessi stranieri, lo diede proprio il Partito comunista, la cui intransigenza verso i fascisti oscillava continuamente, a seconda delle esigenze dell’Unione sovietica. Come non ricordare il noto “appello ai fratelli in camicie nera” di Palmiro Togliatti (1936) e la crisi successiva al patto Molotov-Ribbentrop (1939). Così come l’infatuazione del mondo anglosassone per Mussolini fu scossa, ancor più che dalla crisi etiopica (1935), dalla guerra civile spagnola, quando il blocco protestante s’accorse che i “Patti lateranensi” non costituivano un elemento “tattico” della politica del fascismo, ma una strategica alleanza col Cattolicesimo e col Papa.

L’Antifascismo che improvvisamente rifiorì nel 1943, nel momento declinante della guerra, non fu quello degli “esuli” – la cui forza era del tutto risibile -, bensì quello degli stati anglosassoni che, tramite la massoneria e la mafia, ottennero prima la deposizione del Duce e, poi, il facile accesso al territorio nazionale. Ovviamente, rinvigorì anche l’Antifascismo dei partiti, a partire ovviamente da quello dei “legali rappresentanti” di Josif Stalin, le cui nuove attività furono permesse e promosse dagli eserciti di occupazione, ma nell’ottica di una migliore e più efficiente gestione dei loro interessi, degli interessi stranieri, tra i quali anche la defenestrazione di quei Savoia di cui si erano avvalsi per la prima parte del piano. La monarchia era stata essenziale, infatti, ma puzzava pur sempre di italianità.

Il “fascismo” odierno

Per tornare ai giorni nostri, quindi, quando si pretendono dalla Meloni o da altri che nemmeno hanno nel “dna” elementi di parentela politica col Fascismo, non si chiede affatto una rassicurazione per lo Stato e la comunità internazionale circa il rispetto delle libertà e delle istituzioni cristallizzate nella Costituzione italiana. Tanto più che, all’interno dello Stato, chi detiene la sovranità, il popolo, se ne frega altamente nella quasi totalità di cosa pensino i dirigenti politici dei fatti del secolo scorso. A pretendere “atti di contrizione antifascista” sono essenzialmente determinati circuiti politici ed economici internazionali, ai quali interessa sapere se un determinato governo futuro riconoscerà la subalternità degli interessi dell’Italia ai loro, anche se la tutela della preminenza degli interessi stranieri dovesse costare caro, in termini economici e sociali, proprio al popolo italiano.

All’estero, direttamente o per voce dei “venduti” di turno, si chiede a certe forze politiche se hanno “nostalgie fasciste”, intendendo, però, con questa espressione, di dichiarare subito se siano o meno intenzionate a mettere in discussione il sostanziale asservimento dell’Italia agli interessi inglesi, americani e francesi. E chi è chiamato a rispondere, sa bene come il problema sia questo e che nessuno è veramente preoccupato oggi di vedere la Meloni sul “balcone” a piazza Venezia, così come non ha mai avuto il dubbio serio che vi si affacciassero Matteo Salvini e, prima ancora,  Silvio Berlusconi. Ed è per questo che sono preoccupanti e dolorose le “professioni di fede antifascista” dei protagonisti del Centrodestra: appunto perché sono da leggere e vengono lette come rassicurazioni dell’accettazione della subalternità. Una subalternità che, tra pochissime settimane, potrebbe spalancare le finestre al più rigido inverno mai vissuto dall’Italia da 77 anni a questa parte.

Insomma, in questo genere di contese, nelle polemiche di questi mesi, quando si scrive “Fascismo”, la parola va pronunciata “Italia”.

2 commenti su “Si scrive “fascismo”, si pronuncia “Italia””

  1. Pingback: Urne: non solo rose per Giorgia Meloni ma tante spine -

  2. Pingback: La Segre rincorre i fantasmi del passato -

I commenti sono chiusi.