Una nuova cultura del lavoro per vincere l’assistenzialismo

Una nuova cultura del lavoro per vincere l’assistenzialismoUna nuova cultura del lavoro per vincere l’assistenzialismo – Un recente articolo di Valerio Arenare offre un’analisi precisa e concreta delle problematiche relative al Reddito di Cittadinanza e all’opportunità o meno di mettere da parte una tale misura.

In appendice ad essa, potremmo rivolgere la seguente domanda alla signora Meloni.

“Cos’è che non funziona da noi, il reddito di cittadinanza o piuttosto il mercato del lavoro?”

A noi sembra che l’uno sia la conseguenza dell’altro. A tale riguardo, l’appena eletta Presidente del Consiglio non si esprime. Finge di non darsene per inteso, forse per evitare di urtare i desiderata di un mondo confindustriale che confida decisamente su di lei.

Una misura parziale

Ora è evidente che il reddito, come tutte le forme di sussidio, svolge il compito di tappabuchi rispetto alle disfunzioni occupazionali prodotte dall’economia liberale e nello specifico, dalla condizione depressiva di taluni territori. Le ragioni di certa poltronite giovanile possono essere in parte veritiere, ma il fulcro del problema risiede in cause molto più endemiche.

Tutto è riconducibile a due precisi punti di discussione: la disorganicità del comparto occupazionale e il lavoro moderno così come viene visto nella sua essenza.

Liberismo e collettivismo

Il liberismo, al pari del collettivismo, non si pone la cura di collocare il singolo nella condizione naturale che più gli si addice. Obbedisce ai dettami del profitto e della competitività, sicché la voce delle maestranze finisce per flettere esclusivamente a tale logica.

Analogo danno comporta il collettivismo marxista, il quale tende ad egualizzare senza un corretto principio di sana distribuzione dei ruoli: per cui il lavoro è visto solo nel suo significato quantitativo, conflittuale e salariale, molto poco sul versante qualitativo ed “estetico”.

Le due cattive dottrine tendono a implementarsi e da esse ne esce la forma deteriore del lavoratore globalizzato. Laddove ormai anche la specializzazione si conforma a dinamiche crematistiche in luogo di una stabile ricerca al miglioramento di sé e della propria cultura lavorativa.

La Dottrina Sociale della Chiesa

In passato provvide la Dottrina Sociale della Chiesa attraverso le sue encicliche (Rerum Novarum in primis) nonché i principi corporativi attuati dai regimi nazionalpopolari della prima metà nel Novecento, a dare delle sane direttive su come deve profilarsi un equo rapporto tra lavoratore e azienda.

In sostanza, l’organicità rende consapevoli ognuno nel proprio ruolo nella società e nella Nazione evadendo così da un’arida visione economicistica.

Quella visione alterata che dà luogo a frustrazione e finanche ad odio per il lavoro che si è destinati ad esercitare e che l’illusione di un titolo di studio non riesce ad appagare.

La condizione odierna

Un sondaggio recente indica questo stato di insoddisfazione lavorativa nel 60% circa degli italiani interpellati. Segno di una patologica cultura improntata sul precariato apolide e sullo sfruttamento che le mene globalizzatrici hanno ahinoi accresciuto.

Inversamente, miglior proposito è tradurre il lavoro, in ogni sua espressione, in un’arte gradevole dove lo stimolo alla perfezione faccia da carburante, al pari della stessa paga, per adoprarsi al meglio verso una condotta esistenziale virtuosa ed eticamente corretta. È quello che dovrebbe prefissarsi un buon governo invece di aggredire per partito preso ed esporsi agli alibi di chi vede nel “reddito”, a torto o a ragione, l’unico salvacondotto per sfuggire alle storture della civiltà usurocratica e neoliberista.

Una nuova cultura del lavoro

In uno stato che funziona, dove certi valori richiamino una realtà viva e non astratti gargarismi costituzionali, reddito e misure affini sarebbero minuzie per pochi destinatari. A creare i presupposti per rendere appetibile ogni lavoro, equamente remunerato e necessitarlo di fronte agli obiettivi veri della vita (casa, figli, famiglia) è l’introduzione di una cultura giuridica che dia pari dignità a proprietari e maestranze.

L’impresa è indispensabile come lo è la libera iniziativa che andrebbe incoraggiata e promossa, ma altrettanto occorre valutare l’apporto di chi presta servizio, seppur da uno status di dipendenza contrattuale. Occorre, se piace tanto definirsi patrioti e sovranisti, districarsi da quelle logiche neoliberiste alle quali invece il Governo Meloni da subito ha provveduto a far proprie ammiccando a Draghi e ai “mercati finanziari”(ciò traspare anche dai primi provvedimenti).

Logiche velenose che veicolano in direzione di una calvinistica corsa al profitto e alla competizione esasperata, buona solo per ingenerare un universo di squali e di diseredati.

Logiche che divergono anni luce da una vera civiltà del lavoro che, pur senza rinunciare ai progressi tecnologici, risulti assai più prossima per spirito al “suum cuique” di romano retaggio ed alla aristotelica giustizia distributiva dove, in sintesi, è l’agire secondo virtù, ancor prima del denaro, a rendere gli uomini più felici.