PIL e Salari: se il male dell’Italia si chiama Europa

PIL e Salari: se il male dell’Italia si chiama Europa
Retribuzioni paesi G20

PIL e Salari: se il male dell’Italia si chiama Europa – Passata un’altra finanziaria, passato un altro ciclo di stagnazione per il livello dei salari italiani e globalmente per il PIL. Non tragga difatti in illusione la crescita del 2022 stimata attorno al 3.6%, ancora figlia della ripresa intervenuta dopo le chiusure del periodo covid.

Dagli ultimi dati appare che l’Italia, a 15 anni dal picco del 2007, il prodotto interno lordo italiano non è ancora saputo tornare ai livelli ante crisi del 2008. Similmente i salari medi, sono ancora in sostanza al livello del 2000, mentre rispetto al picco del 2007 siamo sotto di circa un 15%.

Nulla di cui stupirsi per noi.

Il problema è strutturale, lo si vede nel fatto che la stessa tendenza di stagnazione del PIL di compressione salariale si manifesta anno per anno, a prescindere dal merito della singola manovra finanziaria o anche del colore dei diversi governi che si sono succeduti in questo lasso di tempo. Strutturale perché ovviamente l’Italia aderendo all’unione monetaria dell’Eurosistema, si posta fuori da un sistema di funzionamento “normale” del mercato dei cambi e della politica monetaria.

Cambio fisso disastro nazionale

Inutile girarci intorno, piaccia o non piaccia, come scriveva Milton Friedman (il padre della scuola monetarista, la bestia nera dei liberisti di Chicago, non certo uno strampalato economista populista), i cambi fissi non funzionano e l’euro è un sistema di cambi estremamente fissi (nel senso che nazioni diverse avendo la stessa moneta accettano di avere un cambio fisso di 1 a 1 senza possibilità di deviazione di sorta).

Cosa ha implicato questo per l’Italia?

Come previsto ha implicato che qualunque perdita di competitività (dovuta a fattori interni come esterni), qualunque shock negativo del ciclo economico (come appunto la crisi del 2008 dalla quale non ci siamo mai ripreso), non può essere assorbito con un movimento di mercato dei cambi.

Il prezzo dei nostri beni non può aggiustarsi con il cambio – poi in Italia esiste la strana idea che avere un mercato dei cambi libero sia in qualche modo una cosa truffaldina, che facessimo le famigerate “svalutazioni competitive”, che la lira fosse “drogata dalla svalutazione” mentre qua stiamo dicendo solo che i mercati, i mitici e onnipotenti mercati, possano lavorare a modo proprio, né più né meno – quindi per vendere e sostenere soprattutto il nostro export bisogna per forza tagliare i salari, ovvero la remunerazione del fattore di produzione lavoro, incorporata nel prezzo dei nostri beni e servizi.

Poco male se che così sì si torna competitivi e sì cresce l’export commerciale ma si diventa tutti un po’ più poveri, si deprime il mercato interno e si riduce il reddito reale disponibile per le famiglie. Poco male, ce lo chiede l’Europa.

Arrivano così le varie stagioni di austerità, di politiche di compressione della domanda interna, dei saldi primari stabilmente positivi, di disoccupazione artificialmente alta, di immigrazione di massa che aiuta nella concorrenza al ribasso dei salari offrendo manodopera di stampo neoschiavista.

Un problema di sovranità

Non stupiamoci, non sarà il dibattito sul POS a 30 o a 60 euro, non sarà il super-bonus al 90% o al 110%, non sarà l’aliquota al 15% per le partite iva a 75.000 o a 85.000 euro a cambiare le cose. Le decisioni che contano e le misure che contano non vengono più decise a Roma da un pezzo, al momento non pare certo che il governo Meloni abbia la minima intenzione di cambiare realmente le cose. A Bruxelles e a Francoforte sono decise le cose che contano (per non dire a Washington), a noi le diatribe sul pos per poter aver di che chiacchierare al bar la mattina visto che l’Italia non è neanche andata a giocarsi i mondiali in Quatar.