Dunque, d’ora in avanti, lasciare le proprie impronte sul luogo del delitto non significherà più essere automaticamente condannati per il reato consumato.
La clamorosa novità emerge da una sentenza emessa dal Tribunale di Palermo che, non essendoci l’intenzione d’impugnarla, da parte del pubblico ministero, presto potrebbe “passare in giudicato” e, di conseguenza, “fare giurisprudenza”.
Sia chiaro, non è la prima volta che, a fronte della presenza delle impronte dell’imputato, questi venga assolto dai giudici chiamati a valutarne la responsabilità; la novità sta nella motivazione “scientifica” della decisione che ha visto sciogliere da ogni addebito un uomo accusato di furto.
Il fatto risale al 2014, quando, nel corso dei rilievi condotti in un appartamento dove era stato consumato un notevole furto, la Polizia scientifica rileva, sulla bomboletta spray di un’insetticida, una chiara impronta digitale che non appartiene ai proprietari della casa e vittime del reato.
L’impronta viene comparata con quelle dell”apposito archivio, senza un esito positivo. Se appartengono al ladro, quelle impronte, si tratta di un ladro mai arrestato prima.
Quattro anni dopo, però, a un uomo, arrestato per un altro, analogo episodio, vengono rilevate le impronte che, a un successivo raffronto, risultano identiche a quelle sulla bomboletta del 2014. Per tanto, a questo soggetto viene contestata anche la partecipazione a quel lontano crimine.
A dire il vero, l’accusa, contro l’imputato, ha solo quell’impronta, per quanto attribuibile a lui senza margine d’errore, al 100%. Non ci sono altri elementi, però, che colleghino l’uomo al giorno e al luogo del furto. Solo quella traccia nitidissima, ma unica.
Dunque, su richiesta della difesa, interviene il criminologo forense Umberto Mendola (nella foto), il quale, tramite una consulenza di parte, fa rilevare ai giudici come l’impronta digitale, essendo il prodotto di un accumulo di sostanze organiche, non solo può essere rilevata, ma potrebbe e dovrebbe essere anche “datata”. In parole semplici, quando la Polizia scientifica la “raccoglie”, dovrebbe compiere anche un’analisi per stabilire, pur con tutti i margini di errore del caso, quando presumibilmente l’impronta digitale è stata impresso su un determinato oggetto. Altrimenti, in assenza di altre prove concorrenti, l’impronta digitale sola non può essere sufficiente per inchiodare un uomo a una precisa responsabilità.
Infatti, un’impronta di quel tipo può permanere su un oggetto anche per oltre dieci anni, cioè, per un arco di tempo in cui può succedere di tutto, nel luogo o nella cornice in cui quello stesso oggetto è inserito e considerato, da un punto di vista processuale. Quindi, è necessaria una completa attività d’indagine, per stabilire che un’impronta è in relazione a un crimine e, di conseguenza, è probante nei confronti dell’imputato. La sua esistenza di per se stessa, non testimonia nulla di più del fatto che una persona ha toccato un oggetto, in un qualche momento della sua vita.
Può apparire un dettaglio, a prima vista, ma, trattandosi di un ragionamento processualmente inedito, appare proprio destinato a condizionare parecchie situazioni – si pensi ai così detti cold-case -, in cui tracce biologiche di qualsiasi natura vengono assunte in Tribunale quasi come “testimonianze sacre” di verità che, al contrario, dovrebbero essere e meritare ricostruzioni più accurate e coscienziose.