Camminava lentamente, le ossa sporgenti sotto la pelle tirata dalla fame, lo sguardo fisso in avanti, ma carico di secoli alle spalle.
Quando Ishi emerse dalla boscaglia, ai margini della cittadina di Oroville, in California, sembrava venuto da un altro tempo. E in effetti lo era. Non parlava inglese. Non aveva un nome. Non aveva più un popolo.
Era l’ultimo dei Yahi, un ramo del popolo Yana, che abitava le foreste e le colline della California settentrionale, lungo i fiumi e tra le querce, prima che arrivassero i cercatori d’oro. Vivevano in armonia con la terra, in piccole comunità, abili pescatori, cacciatori, artigiani. Ma la loro esistenza fu travolta a partire dal 1849, quando esplose la corsa all’oro. I coloni bianchi, bramosi di ricchezze e di terra, non riconobbero alcun diritto agli indigeni.
Li considerarono ostacoli. Li massacrarono. Tra il 1850 e il 1870, migliaia di Yana vennero uccisi in spedizioni punitive, vere e proprie cacce all’uomo finanziate anche con fondi pubblici. Fucili contro archi, malattie sconosciute, incendi, fame.
Gli Yahi, il gruppo più meridionale e pacifico, resistettero più a lungo, rifugiandosi nelle zone più impervie. Ma anche loro furono sterminati. Nel 1865, il massacro di Three Knolls uccise circa 40 Yahi in un solo giorno. Da quel momento in poi, ne rimasero meno di una manciata. Ishi visse per oltre 40 anni nascosto con pochi parenti tra le montagne, sopravvivendo in silenzio, nell’ombra, mentre il suo mondo crollava.
L’ultimo degli Yahi
Quando nel 1911 scese dalla montagna, affamato e solo, era l’ultimo. Secondo la tradizione della sua gente, il nome non si diceva: spettava a un altro nominarlo. Ma non c’era più nessuno. Gli studiosi dell’Università della California lo chiamarono Ishi, che nella sua lingua significava soltanto “uomo”.
Non lo rinchiusero in una gabbia, come si temeva, ma lo accolsero nel Museo di Antropologia di San Francisco. Non come una curiosità esotica, ma come un testimone vivente di una civiltà spazzata via. Ishi non aveva rancore. Insegnava.
Mostrava come si creavano punte di freccia in ossidiana, come si accendeva il fuoco, come si costruiva un arco, come si parlava una lingua che non esisteva più sulla bocca di nessuno.
Aveva umorismo, dolcezza, dignità. Era colto a modo suo, pieno di storie, pieno di memoria. Nel 1916, morì di tubercolosi. Il suo corpo non aveva difese contro le malattie del mondo che l’aveva accolto troppo tardi. Aveva vissuto solo cinque anni nel “nuovo mondo”, ma vi aveva portato un’anima antica.
I giornali dell’epoca lo chiamarono “l’ultimo indiano selvaggio”. Ma Ishi non fu mai selvaggio. Fu l’ultimo custode di un sapere, l’ultimo eco di un popolo che non voleva scomparire. Oggi, nel silenzio che lasciò, la sua voce ancora parla.
E ci ricorda che ogni popolo che scompare ci lascia più poveri, e che ogni uomo che resiste, anche solo, è un mondo che rinasce.
Valerio Arenare
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