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Home Cultura

Decostruire i decostruttori (III). Francoforte Grand Hotel abisso

Roberto Pecchioli di Roberto Pecchioli
17/06/2025
in Cultura
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Decostruire i decostruttori (III). Francoforte Grand Hotel abisso
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Terza parte del denso lavoro del nostro Roberto Pecchioli sulle centrali culturali che hanno sistematicamente smantellato il mondo tradizionale. Qua la prima e la seconda parte.

Buona lettura!

Nessun movimento culturale ha avuto nel XX secolo l’influenza dell’Istituto di Ricerche
Sociali, la Scuola di Francoforte fondata nel 1922 in Germania ed emigrata negli Stati Unti
a seguito della presa del potere nazista.

Nessuna delle parole scritte sui francofortesi riassume l’esito delle idee diffuse dal gruppo di intellettuali neomarxisti di origine ebraica e dallo stile di vita alto borghese, meglio della definizione di Gyorgy Lukacs : Grand Hotel Abisso.

Il filosofo ungherese marxista tosto partecipò agli inizi della scuola per conto del
regime sovietico da poco al potere. Per lui i francofortesi vissero in una lussuosa suite del
Grand Hotel Abisso, da cui contemplavano il vuoto che avevano creato, la crisi che stavano
accelerando, seduti in comode poltrone “tra pasti eccellenti e intrattenimenti artistici”.

Tutti i componenti dell’IRS erano israeliti. Ebbero in comune il giudaismo come contesto
familiare, il messianismo e l’utopia di un mondo senza frontiere come orizzonte
metapolitico. Un grumo di ebrei non credenti, Max Horkheimer, Theodor W. Adorno,
Walter Benjamin, Herbert Marcuse, Henryk Grossmann, Leo Loewenthal, Siegfried
Kracauer, Erich Fromm, Friedrich Pollock, Franz Leopold Neumann.

La scuola di Francoforte fu il tentativo, coronato da successo, di rimodellare il marxismo, declinandolo in senso individualista e libertario.

La libertà collettiva si poteva realizzare per Marx solo nel superamento della proprietà privata con la lotta di classe del proletariato. La libertà di Francoforte sfumò in liberazione individuale, la dimensione collettiva si sfarinò nel soggettivismo più estremo e la critica alla società capitalistica divenne censura implacabile dell’intera civiltà europea.

Tutto da cattedre ben retribuite. Innestarono nel pensiero rivoluzionario occidentale Sigmund Freud e la psicoanalisi, comprendendone la portata distruttiva, tra sociologia, psicanalisi e marxismo declinato in chiave individualistico emancipatrice, con qualche spruzzata di irrazionalismo.

Il fallimento del marxismo era per i francofortesi provato dallo scarso interesse del proletariato per la rivoluzione. L’operaio aspira innanzitutto a farsi benestante, ed quindi paradossalmente conservatore. La dimensione economica marxista, il, rifiuto della proprietà privata non li convincevano, specie Friedrich Pollock , che sviluppò i concetti di pianificazione e capitalismo di Stato, fornendo l’arsenale concettuale che permise di separare le concezioni generali sulla società dalle idee economiche del marxismo classico.

Occorreva rintracciare nuovi soggetti rivoluzionari. L’ IRS compì un ardito gioco di prestigio, sostituire la lotta sociale con quella generazionale – la guerra contro i padri – attraverso la contestazione globale della civiltà occidentale. Successivamente le nuove leve rivoluzionarie sarebbero state individuate nelle minoranze sociali, etniche, sessuali.

La chiave fu il concetto di liberazione, sulle piste del pansessualismo con dosi di follia di Wilhelm Reich e della lettura “sociale” di Fromm della psicanalisi. La rivoluzione raggiungeva la sfera intima, passando dal materialismo dialettico della società redenta dall’abolizione della proprietà privata alla liberazione dai vincoli.

Quelli religiosi, poi quelli della famiglia, di cui Herbert Marcuse descrisse la “desolazione”, gli usi e costumi, le appartenenze, i legami sociali e quelli comunitari. Con l’aiuto di Freud, Francoforte organizzò l’omicidio perfetto, la morte del Padre, celeste e biologico, il pater familias.

Lo sbocco fu il soggettivismo assoluto. I testi dal maggiore peso distruttivo furono La
Personalità Autoritaria di Adorno, L’uomo a una dimensione e Eros e Civiltà di Herbert
Marcuse, vangeli del Sessantotto, rivoluzione intraborghese.

L’elemento centrale per frantumare il “mondo di ieri” fu la critica durissima al principio di
autorità. Da quella spirituale a quella paterna, passando per la politica, la filosofia e l’arte.
Adorno ne La Personalità autoritaria introdusse delle “scale” con cui piazzò dinamite sotto
ogni principio: la scala F, il fascismo potenziale che dorme in ciascuno di noi, la scala A-S
per l’antisemitismo, E per l’etnocentrismo, PEC per i tratti del conservatorismo politico
economico.

Affondata ogni autorità, restano due possibilità estreme: l’individualismo
senza confini e il nichilismo che amministra l’ultima verità rimasta, l’assenza di verità. Dal
relativismo al nichilismo chiuso nel Sé. Negata validità alla civiltà, non resta che un
presente puntinista, la mens instans di Leibniz.

Con l’abolizione del passato, sottoposto all’impietoso tribunale del presente, posta al centro la categoria di progresso (più di ieri, meno di domani), si spegne la tensione verso lo spirito. Francoforte fu anche responsabile del tramonto della forma nell’arte.

Scrive Adorno: “l’arte moderna produce verità solo attraverso la negazione della forma estetica tradizionale e delle norme tradizionali di bellezza”.

L’arte decade da intuizione compiutamente espressa (B. Croce) a bizzarria creativa, ricerca dello stupore, gesto ad effetto. Una prestazione tra le tante, nonostante l’alto là di Marcuse alla società “performativa”. Esauriti i canoni dell’arte e della bellezza, soggettivi come tutti gli altri, si finisce nell’ happening, l’attimo liberatorio fine a se stesso.

I francofortesi hanno forgiato, sulle ceneri del comunismo burocratico e sulle macerie borghesi, l’Occidente contemporaneo da cui Dio è fuggito dopo aver perso la “D”, e Noi sfuma in milioni di atomi diversamente identici. La liberazione soggettivizzata ha creato una società decomposta e avvizzita – idee, valori, identità, impegni sempre revocabili a capriccio – che sopravvive in un totalitarismo inedito, fondato sull’adesione a parole d’ordine apparentemente emancipatrici, in realtà obbligatorie, pena l’esclusione sociale e l’espulsione dal presente, nuovo idolo dell’uomo a una dimensione, il cui orizzonte è Eros e il cui topos è Oggi.

Marcuse ne fu l’ ispiratore nel richiamo alla liberazione sessuale, all’abbandono della famiglia, alla denuncia della società repressiva, nell’ idea di “grande rifiuto” che affascinò milioni di giovani. Rifiutare è il primo passo di ogni idea nuova, ma quello successivo è il progetto, l’alternativa. Immaginazione abortita per eccesso?

Mancò completamente la pars construens, per questo fu Grand Hotel Abisso.

Tutto sfociò in anarchismo parolaio, nella decostruzione come unico fine, nei paradisi artificiali, le droghe destinate a estendere e trasportare I’ Io oltre se stesso. Conosciamo bene il ruolo decisivo degli apparati riservati americani nel diffondere l’uso di certe sostanze per indebolire le generazioni e plasmare “l’uomo a una dimensione”.

Marcuse smascherò peraltro la “tolleranza repressiva” delle società politiche occidentali, la tendenza a far coincidere progresso tecnologico ed emancipazione. Affermò l’impostura delle società democratiche che rendono impossibile ogni forma di opposizione.

L’incipit dell’Uomo a una dimensione è “una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno del progresso tecnico”.

La dimensione unica è oggi pienamente realizzata nella società neoliberale, ultra libertaria nell’esteriorità, repressiva e totalitaria verso ogni modello non conforme all’idea del consumo e dell’immediato.

La soluzione francofortese alla “società amministrata “(Horkheimer) è tuttavia peggiore del male: la liberazione attraverso l’Eros, la negazione generale del principio di autorità, i paradisi artificiali, la chiusura nella dimensione soggettiva. Esattamente ciò che serve al neo capitalismo per perpetuare il suo dominio. Eterogenesi dei fini o forse no, dal momento che i quattro cavalieri dell’Apocalisse, Adorno, Marcuse, Horkheimer, Fromm, non avrebbero avuto dal sistema onori, prebende e prestigiose carriere se ne fossero stati avversari. Le idee di Francoforte sono divenute potere, senso comune, persino obblighi. Sono il pregiudizio universale d’Occidente.

Il trait d’union tra la filosofia postmoderna e l’origine marxista della Scuola di Francoforte
è la matrice psicanalitica, tipica dell’Europa germanofona del primo dopoguerra, lo sfondo
magmatico nel quale le tesi di Sigmund Freud sulla repressione pulsionale appassionavano
i salotti non meno di quelle di Marx sull’ alienazione, fattore repressivo della classe
operaia.

La sovrapposizione e commistione tra i due ambiti fu inevitabile. Marx aveva annotato come “la svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose” descrivendo tale processo come “estraniazione”.

L’idea della merce, prodotta dall’operaio stesso, che finisce per schiavizzare il suo creatore, disumanizzato quanto più le dedica tempo ed energie, ebbe una presa radicale sui Francofortesi, i quali spostarono l’asticella della critica, da solo economica che era, all’intera impalcatura sociale. L’alienazione del lavoro non era l’unica estraniazione a cui l’uomo era soggetto; di qui l’attacco forsennato al principio di autorità, statale, religiosa, padronale, familiare, culturali. Condizioni di dipendenza che producevano il masochismo, tematizzato da Erich Fromm.

Nella sua visione la famiglia ha un ruolo precipuo nella creazione dell’idea di potere “morale”. Il bambino si abitua a considerare i genitori eroici ed indiscutibili, ed a riprodurne le condotte. Il trauma della crescita, il riconoscimento della natura debole dei genitori, non fa che traslare l’aura di eroicità e indiscutibilità, dunque di moralità, dall’autorità familiare all’ autorità sociale per antonomasia, lo Stato.

Di qui l’esigenza di ribaltare l’intera struttura familiare, lanciando la sfida di una pedagogia “esclusivamente al servizio dello sviluppo del bambino”, per attuare “l’evoluzione della sua personalità complessiva”.

Con questa dichiarazione di guerra cominciava la detronizzazione del padre. L’opera centrale fu la ricerca collettiva dal titolo La personalità autoritaria, pubblicata nel 1950.

La tesi centrale di Adorno- ispiratore del testo- era che l’autorità produce “tendenze antidemocratiche”– il cosiddetto fascismo potenziale- le quali si manifestano attraverso
disvalori, atteggiamenti, opinioni provenienti da strati profondi della personalità. Evidente
è il debito con il freudismo.

Sradicare queste tendenze della personalità avrebbe consentito di abbattere per sempre qualunque tendenza al fascismo, all’etnocentrismo ed al conservatorismo, economico e religioso, i nemici assoluti.

Adorno costruì la trama ideologica su cui si regge il progressismo trionfante, all’ombra dei padroni della società di mercato. La demonizzata personalità autoritaria non è che la capacità di trasmettere informazioni, giudizi, comportamenti, base della riproduzione sociale e della civiltà stessa. L’esito è disastroso: nuovi autoritarismi incombono, ma l’opera di dissoluzione del passato, l’annullamento del “mondo di ieri” ha prodotto una personalità fragile, insicura, affezionata all’apparenza della libertà, nemica di tutto ciò che è permanente, stabile, impegnata in un gioco senza inizio e senza fine. Adolescenti che non crescono mai, estenuati da interminabili dispute sul nulla, la cui conseguenza è l’assenza di decisione, l’orrore per la responsabilità, il respingimento di tutto ciò che rende consapevoli.

Restare indefinitamente adolescenti rende uomini e donne incompiuti in una fase temporanea dell’esistenza, una condizione temporanea, una scena nel film della vita.

Generazioni che non maturano mai. A cui si attaglia un verso della Vita è sogno di Calderòn de la Barca: nada me parece justo, en siendo contra mi gusto. Niente mi sembra giusto se non mi piace.

Vietato vietare fu lo slogan più fortunato del Sessantotto, la rivoluzione che ha prima dissanguato, poi scarnificato la civiltà occidentale. Pronunciato a Radio Lussemburgo,
urlato e scritto innumerevoli volte nell’ambito degli eventi “situazionisti” – una delle mode
dell’epoca – è uno di quegli enunciati senza senso che diventano iconici, sino a trasformarsi
in simboli.

Una civilizzazione priva di proibizioni, limiti, autorità riconosciute, punti di riferimento, è destinata a scomparire. La civiltà, come la natura, ha orrore del vuoto.

Rifiutate senza appello tutte le fonti, gettate nella spazzatura di una storia che si disfa di se
stessa, le sorgenti si sono disseccate. La nostra epoca è segnata da una singolare siccità dovuta alla dispersione. Risultato, la fine della durata, l’avvento del provvisorio e dell’ubiquità iperveloce, il dominio dell’istante. Un altro slogan del Sessantotto, stagione dell’happening a tempo indeterminato, della vacanza permanente, della distruzione sedicente creativa fu “l’immaginazione al potere”.

Lo coniò Herbert Marcuse: la filosofia deve appellarsi all’immaginazione, poiché la ragione e il linguaggio non sono in grado di superare la realtà e opporre il “grande rifiuto”.

Marcuse, attraverso la rilettura della psicanalisi di Freud sviluppata in Eros e Civiltà, individuava nel principio di piacere la fonte della liberazione attraverso l’immaginazione, componente primaria della libido e dell’eros.

Tags: femminismofrancofortemarxismopsicanalisi
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