La vittoria di Trump ha certamente rappresentato un formidabile acceleratore della sconfitta, non si sa quanto completa e definitiva, del più becero wokismo che sembrava dominare la società americana. Con un trend iniziato ancora prima delle elezioni, una serie numerosa di aziende e multinazionali aveva iniziato a sospendere i famigerati programmi DEI (Diversity, Equity, Inclusion), con le loro agende di quote razziali e sessuali nelle assunzioni e nelle promozioni, corsi di rieducazione obbligatori per i dipendenti, censure nel lessico aziendale e limitazioni alla libertà di parola dei collaboratori. Certo, la vittoria di Trump ancora non era avvenuta, ma le antenne sensibilissime delle grandi aziende avevano fatto sì che queste fossero ben consapevoli che le “previsioni” dei sondaggisti che vaticinavano un incertissimo testa a testa o addirittura la vittoria della Harris erano delle colossali imposture, una falsificazione delle intenzioni di voto.
Dopo la travolgente vittoria di Trump ecco giungere le ammissioni di Zuckerberg riguardo alle censure imposte dall’amministrazione Biden sui contenuti delle piattaforme di Meta: Facebook, Instagram e WhatsApp. Poi l’annuncio, altrettanto clamoroso, che Meta avrebbe smantellato la rete di cosiddetti “fact checker”, in realtà team di censori di ultrasinistra sempre pronti a oscurare siti e post conservatori, cristiani e presunti no-vax.
Blocco delle politiche DEI
Non solo: Meta si è impegnata a bloccare le politiche DEI, compresa la grottesca decisione di offrire assorbenti femminili nei bagni dei maschi. L’ideatore di questa ridicola trovata è stato licenziato. NewsGuard, un collettivo di giornalisti di ultrasinistra dedito alla censura dei siti e dei giornali conservatori, è stato posto sotto accusa e Microsoft, che lo finanziava, lo ha abbandonato. Senza fondi è rimasta anche Internews, una non profit dedita alla disinformazione liberal a livello planetario. In sostanza, si sta sgretolando buona parte del gigantesco e opprimente apparato censorio e di disinformazione posto in essere dall’egemonia culturale liberal, dal deep state infeudato alla cancel culture e dall’amministrazione Biden.
Su ordine di Trump, sono stati chiusi tutti gli uffici “per la diversità e l’inclusione” in tutti gli enti federali, FBI compresa, con il licenziamento degli attivisti woke che vi lavoravano. (Sogniamo: come se il governo soi disant di centrodestra di Giorgia Meloni abolisse l’inquietante e persecutorio Unar, il cosiddetto Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali voluto dalla solita sciagurata UE, che agisce sotto l’egida appunto della Presidenza dei Consiglio dei Ministri). Poi il neo-presidente ha promesso: “a partire da oggi, la politica ufficiale del governo degli Stati Uniti prevede che ci siano solo due generi, maschile e femminile.
Realtà optional per i liberal
Dichiarazione lapalissiana e ovvia ma, per i liberal, la realtà è un optional. “Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate” scriveva Chesterton. In via di soppressione l’Usaid, la famigerata agenzia USA dedita alla sovversione internazionale e alla promozione della perversione, come ha dimostrato la pubblicazione dell’elenco dei progetti finanziati. I soliti giudici di sinistra ci provano a fermare l’ordine esecutivo. Vedremo. Nel suo discorso al Congresso, Trump ha affermato: “Stiamo togliendo l’ideologia woke dalle nostre scuole e dal nostro esercito ed è già fuori dalla nostra società. Non la vogliamo. L’ideologia woke è un problema, è cattiva”. Almeno nell’ambito della lotta al wokismo e alla cancel culture, i primi passi del nuovo Presidente fanno quindi ben sperare. Su altri aspetti, le perplessità e le riserve, anche forti, non mancano.
L’elenco delle aziende che, come si diceva a partire ancor prima della vittorio di Trump, avevano fiutato per tempo il cambiamento di clima e quindi rinnegato le menzogne DEI è impressionante: tanto per fare qualche nome noto anche in Italia: John Deere, Harley-Davidson, Caterpillar, Black & Decker, Jack Daniel’s, Ford, Molson Coors, Toyota, Walmart.
Persino nelle Università, ove il movimento woke è nato, si è sviluppato e dove sono state elaborate le sue folli e antiumane teorie, il wokismo è in rotta: vengono sciolti i dipartimenti DEI, sospesi i relativi corsi (che in qualche caso erano obbligatori), bandiere trans-omosessualiste abbassate. Sta accadendo alla Columbia University, a quella della Virginia, della Carolina del Nord, della Florida, la prima a rifiutare le parole d’ordine della perversione e dell’odio antibianco.
Il mondo della finanza
Ma la disfatta delle politiche aziendali eco-liberal e wokiste ha coinvolto, e questo è ancor più significativo, anche lo strategico settore finanziario. Un’associazione che raggruppava banche impegnate nel chimerico progetto di azzerare l’emissione di presunti “climalteranti”, la Net-Zero Banking Alliance, ha visto nell’ultimo anno la defezione di Wells Fargo, Citi, Bank of America, Morgan Stanley, Goldman Sachts. Persino il potentissimo, e assai liberal, fondo BlackRock ha abbandonato il consesso e analoghe defezioni hanno impattato anche un’altra associazione di aziende dedita al catastrofismo climatico, la Climat Alliance.
Si sta sgretolando, almeno negli USA, l’egemonia di un’altra famigerata sigla: ESG, cioè Environmental, Social, Governance, che ha indirizzato per anni le politiche dei grandi istituti finanziari: niente soldi alle aziende che sfruttano le fonti fossili, richieste alle società finanziate di imporre quote razziali e sessuali nelle assunzioni, nelle promozioni e nelle posizioni apicali, di dimostrare di essere green (il Financial Times nel 2020 denunciava che BlackRock aveva “sanzionato” con una valutazione negativa ben 244 aziende “colpevoli” di non essere sufficientemente attive nella lotta alla presunta “crisi climatica”).
La marcia indietro di BlackRock
Poi la reazione della clientela e degli Stati governati dai repubblicani che hanno incominciato a disinvestire da BlackRock ed emanato leggi contro la discriminazione “finanziaria” di aziende che trattano fonti energetiche e armi. Così, già dal 2022 Larry Fink, l’ultra-liberal CEO di BlackRock, amico di George Soros, aveva rinunciato ad utilizzare la famigerata sigla ESG. Il Wall Street Journal l’aveva constatato subito: “Molte società non pronunciano più queste tre lettere: E-S-G”.
Non solo: per le limitazioni imposte dalle politiche ESG, gli investimenti “santificati” da questa sigla sono decisamente meno vantaggiosi di quelli in aziende e fondi “normali”: mediamente l’adesione all’ideologia eco-wokista penalizza il rendimento di un buon 10%. E i risparmiatori si infuriano: riferisce LaVerità che circa 100.000 dipendenti di American Airlines hanno fatto causa, vincendola, contro il fondo pensioni della compagnia che aveva affidato la gestione dei risparmi previdenziali proprio a BlackRock, che li ha depauperati con investimenti ESG.
Azoria Partners Antiwoke
E’ poi recente la notizia del lancio, da parte di una coraggiosa società finanziaria, la Azoria Partners, di un primo fondo di investimento quotato (Etf) anti-woke che esclude le società della classifica S&P 500, le maggiori, che si sono inchinate ai folli principi woke della Diversity, Equity, Inclusion. Nel portafoglio di questo fondo non ci saranno aziende DEI che, anche per le loro politiche antimeritocratiche, hanno rendimenti inferiori. Ma è ovvio che la scelta del fondo, prima ancora di ottimizzazione finanziaria, è etico-politica.
E’ comunque un dato di fatto che la ribellione dei consumatori USA contro l’egemonia liberal e le relative, conseguenti scelte sciagurate di molte aziende è partita ben prima della valanga trumpista: anzi, si può dire che la vittoria di Trump sia stata un effetto, almeno in parte, della rivolta anti-wokista e anti Black Lives Matter degli americani per bene.
La birra della svolta
Se vogliamo individuare un punto di svolta, lo possiamo rinvenire nel caso, scoppiato nell’aprile del 2023, della birra Bud Light, che era la più venduta negli USA, un marchio “di casa” per milioni di famiglie. Quando l’azienda decise di mandare in onda un video promozionale in cui a pubblicizzare il prodotto era un noto influencer e militante transessuale, Dylan Mulvaney, la rivolta della clientela, soprattutto della middle class dell’America profonda, è stata così pesante in termini di diminuzione delle vendite da causare un crollo degli utili e del valore delle azioni della casa madre. Così si è significativamente espresso un commentatore: “Tutti hanno paura di essere presi in giro se si fanno vedere con una lattina di Bud Light in mano”. Oggi la Bud Light non è più la birra più venduta negli USA.
Gillette e Disney
Il caso Gillette è altrettanto eclatante. Invasata da un autolesionistico fuoco sacro contro il patriarcato, l’azienda leader nel mercato dei rasoi aveva lanciato una campagna pubblicitaria scagliandosi contro l’invenzione femminista della cosiddetta “mascolinità tossica”. In sostanza, un attacco alla sua tradizionale clientela maschile che, ovviamente, ha reagito smettendo di acquistare i rasoi Gillette. Perdite stimate: 8 miliardi di dollari.
Un altro caso è quello della Disney, particolarmente scandaloso per i messaggi di decostruzione e di apologia della perversione nei confronti del suo mercato di elezione, quello dell’infanzia. Ecco gli scandalosi Gay Pride organizzati nei vari parchi Disneyland e l’esibizione negli store di gadget LGBT. Ma è soprattutto nelle produzioni cinematografiche che si è manifestato il wokismo della Disney: femminismo, trans-omosessualismo, genderismo, antirazzismo. I tradizionali eroi, maschi e bianchi, sostituiti con personaggi ambigui, meticci e femminili. Ecco la Sirenetta interpretata da un’attrice di colore e attori neri incongruamente e anacronisticamente inseriti nel remake de La Bella e la Bestia; una Biancaneve non più molto bianca e personaggi dai tratti grotteschi e sessualmente ambigui. Questa corruzione della tradizione è stata forzosamente introdotta anche nelle produzioni dei marchi collegati, come la Marvel o la Lucasfilm.
Tuttavia la reazione del pubblico non si è fatta attendere, non solo grazie a strutturate campagne di boicottaggio lanciate da associazioni cristiane e conservatrici, ma soprattutto a una spontanea rivolta della clientela di sempre, che ha semplicemente smesso di acquistare i prodotti Disney: al cinema, nello streaming, negli store. Gli incassi del film Wish, impestato di wokismo, non riescono neppure a coprire i costi. Anche le case di produzione collegate sono state coinvolte nel crollo del fatturato.
Marvel femminista in perdita
La Marvel è stata punita con il fallimento del film The Marvels, femminista e multiculturalista, costato trecento milioni di dollari e che ne ha incassati duecento. O come la Lucasfilm: tra la rabbia dei fan della saga di Star Wars, i “vecchi” personaggi come Ian Solo e Luke Skywalker sono stati brutalmente eliminati per far posto a “eroine” femministe. Risultato: proventi dimezzati.
Il risultato di questo tradimento del pubblico tradizionale della Disney ha portato a un calo degli utili e del prezzo delle azioni. Ma è anche un tradimento dei valori del suo fondatore Walt, che notoriamente era un ultraconservatore. Significativa una dichiarazione di Elon Musk: “Se potesse guardare oggi la sua società penso che Walt Disney si rivolterebbe nella tomba”. Risultato: un miliardo di dollari in fumo nel 2023, un feroce piano di ristrutturazione aziendale che contempla un taglio dei costi per 5,5 miliardi di dollari e l’eliminazione di 7.000 posti di lavoro. Costretto dai pessimi risultati aziendali, dalle proteste dell’opinione pubblica e da quelle degli azionisti, Bob Iger, CEO della Disney, è stato costretto a una imbarazzata retromarcia: “Dobbiamo concentrarci sull’intrattenimento, non sui messaggi”,ha dichiarato.
La marcia indietro
Comunque, dopo la vittoria di Trump e quindi buona ultima tra le multinazionali USA, anche la Disney sta facendo marcia indietro sulle sue estremistiche pratiche DEI. In particolare sono state riviste le cosiddette “politiche di inclusione” e anche l’indicazione contenuta nell’iniziativa “Reimagine Tomorrow” che prevedeva che il 50% delle assunzioni provenisse da minoranze di vario tipo, decisione che era già costata alla Disney una denuncia federale per discriminazione. Ora, invece, il gigante dell’intrattenimento si focalizzerà sulla ricerca e valorizzazione dei talenti.
Analoghi boicottaggi hanno avuto successo, come quello contro la catena di negozi Target che aveva messo in catalogo ben 2.000 prodotti “dedicati” in occasione di un Gay Pride o contro l’azienda di abbigliamento Kohl che, sempre nella stessa occasione, aveva addirittura ideato una linea di abbigliamento “arcobaleno” per i bambini. Entrambe le aziende hanno dovuto fare marcia indietro e ritirare i prodotti incriminati. Anche Adidas è stata costretta a ritirare una linea di “costumi da bagno trans inclusivi”.
Robbie Starbuck
Uno dei promotori di questa riscossa dell’America profonda contro l’ideologia perversa wokista è Robbie Starbuck, un produttore video del Tennessee. La newsletter dell’associazione Tradizione Famiglia Proprietà ci ha fatto conoscere la sua storia. L’ultra-sinistrorso New York Times ha definito Starbuck “l’agitatore anti-DEI che le grandi aziende temono di più”. Con un seguito di centinaia di migliaia di follower su X e Instagram, Starbuck prende di mira le grandi aziende, soprattutto retail, che adottano agende politiche ispirate all’agenda woke scatenando contro di loro le proteste della clientela conservatrice.
Il sistema funziona: emblematico è il caso della Tractor Supply, una catena nazionale di attrezzature per il giardinaggio, bricolage, lavori domestici: a seguito delle infuriate proteste e minacce di boicottaggio di migliaia di clienti, l’azienda ha repentinamente sospeso ogni agenda DEI. Parte del merito della rinuncia a politiche aziendali pervertenti da parte delle aziende che abbiamo sopra citato è da attribuire a questa figura di eroe solitario della lotta per il buon senso e l’etica della realtà naturale.
Mobilitazione conservatrice
Certo è che la sensibilità e la consapevolezza dei cittadini americani sta cambiando: cresce la volontà di mobilitazione della maggioranza conservatrice. Sempre di più sono consapevoli degli effetti nefasti della religione woke e delle sue feroci imposizioni politiche anche all’interno delle aziende. Nell’ultimo anno e mezzo, secondo un sondaggio del Pew Research Center, la percentuale di dipendenti che rinfaccia alla propria azienda di prestare troppa attenzione all’agenda DEI è cresciuta di cinque punti. E la vittoria di Trump la farà crescere ancora di più.
C’è un insegnamento che dovremmo trarre da quanto è successo e sta succedendo negli USA, che pure non rappresentano certo, per chi scrive e crediamo per molti altri, una società e un modello ideale: crediamo che il ruolo di questa potenza sia stata, fin dalla sua fondazione, imperialisticamente sovversivo e aggressivo nei confronti dell’ordine mondiale, non certo quella biblica “luminosa città sulla collina”, ispirata da un, peraltro minaccioso, millenaristico “destino manifesto”.
La componente sana scende in campo
L’insegnamento è questo: quando c’è una componente ancora sana, che peraltro è maggioritaria, della società che ha il coraggio di sfidare l’ideologia liberal imperante, le minacce, le censure e le demonizzazioni del mainstream, le ricattatorie accuse di razzismo, fascismo, “omotransfobia”, “sessismo”, antifemminismo e “machismo” e così via con tutte quelle definizioni falsificanti e terroristiche appositamente inventate per tapparci la bocca.
Quando questa componente della società si incontra e si riconosce, si organizza e si mobilita, vota per candidati non curandosi se sono accusati di essere “estremisti”, raccoglie firme per petizioni, finanzia i ribelli movimenti “conservatori”, boicotta le aziende con programmi DEI e che fanno pubblicità disgustose e pervertenti, scrive email di ferma protesta a queste stesse aziende, si coalizza per class action, si rifiuta di investire in fondi o società che seguono i suicidari principi ESG, sottrae i propri figli alla visione, nei cinema e nei canali a pagamento, di un entertainment che è apologia del multiculturalismo, dell’antirazzismo, della cosiddetta diversity, del pervertimento e della devianza, dell’odio per la vita e la famiglia e coerentemente si batte nelle scuole per proibire programmi trans-omosessualisti e genderisti, quando accade tutto questo, allora il fronte della depravazione e della decostruzione può essere, se non sconfitto, almeno fermato, certamente rallentato.
L’Europa?
Il ciclone Trump non sembra, per ora, scuotere l’Europa e l’Italia e suggerire reazioni analoghe. L’Unione Europea non dismette il suo fanatismo green, con leggi ESG che costringeranno le aziende a suicide politiche “sostenibili” e saranno sempre meno competitive di quelle degli altri continenti. In tutta l’Unione, l’entrata in vigore del famigerato Digital service Act impone la censura in rete delle opinioni sgradite. E si potrebbe continuare per pagine e pagine. Potremmo mutuare dall’intellettuale francese Jean-Claude Michéa la definizione dell’Europa di “Corea del Nord del liberalismo culturale”, che nel suo bel libro Il lupo nell’ovile ha applicato alla Svezia.
L’Italia
In Italia, è un altro esempio, non cessano i tentativi di corruzione morale e ideologica dei più piccoli con l’introduzione, spesso mascherata, di propaganda trans-omosessualista e genderista nelle scuole. E chi la rifiuta viene addirittura perseguitato con provvedimenti disciplinari come è recentemente capitato in un istituto a Verona a un coraggioso ragazzino, accusato di “omofobia” (termine falsificante e pervertente), come se questa “omofobia” fosse un reato e non una legittima, anzi doverosa reazione all’apologia di atti contro natura. E spesso i genitori non osano più ribellarsi, temendo rappresaglie contro i loro figli. Lo stesso dicasi delle “festività islamiche” che alcuni istituti scolastici impongono alle famiglie; e spesso sono gli stessi istituti che proibiscono di festeggiare il Natale.
Subiamo ogni giorno il bombardamento televisivo di pubblicità con l’incongrua partecipazione di testimonial di colore o con la inequivocabile, spesso esibita presenza di omosessuali di diversa specie. Denuncia su LaVerità l’esponente pro-vita Massimo Gandolfini: “Siamo arrivati a un punto di saturazione: non c’è quasi più una fiction, un telefilm, uno spot pubblicitario in cui [la lobby Lgbtq+] non inserisca un bacio saffico, un’affettività omosessuale, una famiglia omogenitoriale”. Ma, contrariamente a quanto è capitato negli USA, nessuna organizzazione ha il coraggio di invitare al boicottaggio dei prodotti pubblicizzati.
La rivolta dal basso
Negli USA la rivolta contro la degradazione, la perversione, la decivilizzazione è iniziata dal basso, spesso con iniziative spontanee dettate dall’indignazione collettiva contro l’imbarbarimento wokista della società. Questa rabbia di massa, come spesso accade, ha poi quasi provvidenzialmente trovato in Donald Tramp un formidabile e coraggioso campione.
Quando vedremo, mutatis mutandis, un analogo cambiamento dello zeitgeist, dello spirito del tempo anche in Europa e in Italia?
Antonio de Felip
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