Intervista a Luca Tadolini, co-autore del libro “Le donne reggiane vittime della guerra partigiana (1943 – 1946)”

Intervista a Luca Tadolini, co-autore del libro “Le donne reggiane vittime della guerra partigiana (1943 – 1946)”Intervista a Luca Tadolini, co-autore del libro “Le donne reggiane vittime della guerra partigiana (1943 – 1946)” – Nel novero delle pubblicazioni che prendono in esame il lato oscuro della cosiddetta Guerra di Liberazione si colloca il libro “Le donne reggiane vittime della guerra partigiana (1943 – 1946)”, stampato a marzo scorso per le Edizioni all’insegna del Veltro ed avente come autori Ivaldo Casali e Luca Tadolini.

L’opera sta a testimoniare che non si è ancora fatta piena luce sui crimini commessi dai partigiani comunisti, nonostante siano trascorsi poco meno di ottant’anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Fucilazioni, processi sommari davanti a improvvisati tribunali partigiani, soldati uccisi sui letti d’ospedale o prelevati dalle prigioni, insieme alle violenze e stupri delle ausiliarie e delle donne fasciste (e non solo) ad opera dei vincitori. Il libro di Luca Tadolini riporta i nomi di settantasei donne «che nella provincia di Reggio Emilia furono vittime della violenza omicida partigiana negli anni 1943-1945 ed anche dopo la fine del conflitto».

Perché ha scritto un libro sulle donne reggiane vittime della guerra partigiana?

Dall’inizio degli anni Novanta a Reggio Emilia è iniziata un’opera di ricostruzione storica delle vicende locali della Repubblica Sociale Italiana e della guerra partigiana, periodo altrimenti e rispettivamente indicato come Guerra Civile o Guerra di Liberazione. La provincia reggiana è considerata esemplare a livello nazionale dal punto di vista della Resistenza: si è lavorato sulla giugulare storica dell’antifascismo. Considerato che il nostro territorio è stato fra i più insanguinati d’Italia, tanto da essere denominato Triangolo Rosso o Triangolo della Morte, si è iniziato con la compilazione di un Martirologio delle vittime. La guerra partigiana si svolse nella fase finale del conflitto mondiale, tra la fine del 1943, dopo l’Armistizio, e lo sfondamento della Linea Gotica nell’Aprile 1945. Questa attività bellica – non convenzionale ed illegittima da ogni punto di vista della legislazione militare – ebbe luogo nella Repubblica Sociale Italiana (RSI) , lo stato fascista che si ricostituì dopo la liberazione di Benito Mussolini dagli arresti seguiti al colpo di palazzo del 24 Luglio 1943. Abbiamo affiancato e incrociato lo studio delle violenze partigiane con la storia della Rsi reggiana, tema che ho curato personalmente in quattro volumi, pubblicati sempre dalle Edizioni all’insegna del Veltro di Parma.

Cosa accadde allora nel Triangolo Rosso?

Nel territorio metropolitano invaso dagli angloamericani, sbarcati in Sicilia nel Luglio 1943, i partiti antifascisti organizzarono sotto la direzione dei servizi segreti Usa e Inglesi una guerriglia antifascista e antitedesca. Togliatti, segretario del Partito comunista italiano, tornò in Italia dall’Unione Sovietica – dove operava dagli anni Venti – nel Marzo 1944, per accordarsi con monarchici, democristiani e giellisti. Le formazioni comuniste si dimostrano le prime ad entrare in azione e le più capaci ad egemonizzare i primi gruppi armati che si erano formati nel caos post armistizio con lo sbandamento dell’Esercito Regio e con la fuga dei prigionieri. I partigiani comunisti, affiancati da commissari politici e inquadrati secondo criteri stalinisti, iniziarono immediatamente a porre in essere omicidi politici ai danni dei fascisti. Vennero assassinati squadristi o responsabili politici, ma anche italiani senza incarichi di nessun rilievo. E non esitarono a sparare alle donne. A Reggio il primo attentato al Seniore della Milizia Fagiani vide gravemente ferita la figlia che si pose col corpo davanti al padre: il gappista non esitò a sparargli in faccia. A Scandiano, uno dei più importanti comuni della provincia, la resistenza antifascista iniziò con l’assassinio in un agguato serale di una donna responsabile femminile del Fascio. Questi attentati cercavano ed ottennero le rappresaglie fasciste. A Reggio iniziarono in maniera scomposta ed isterica con la fucilazione dei sette fratelli Cervi, detenuti in carcere per attività antifascista, ma che non avevano a loro carico uccisioni. Peraltro, i Cervi risultavano recalcitranti alla disciplina stalinista e sul loro sacrificio pesa l’ombra della manovra comunista diretta ad ottenere l’egemonia nella guerra partigiana. Se in pianura la spirale attentato – rappresaglia venne ottenuta con gli agguati gappisti, in montagna i comunisti scatenarono la furia tedesca sulle borgate appenniniche fucilando i prigionieri italiani e germanici e lasciandoli sulla neve a Monteorsaro. La laboriosa ed ordinata società rurale reggiana si rivelò fragile e vulnerabile all’aggressione partigiana comunista, mettendo in evidenza l’impotenza delle autorità fasciste a contrastarla e consentendo propaganda armata in ampi territori rimasti senza presidio. L’estate del 1944 vide l’alta provincia reggiana coinvolta nell’esperimento di una resistenza di massa della cosiddetta Repubblica di Montefiorino, definita un “mattatoio” per le violenze che vi avvenivano. Il bubbone verrà inciso dalle operazioni tedesche di controguerriglia denominate Wallenstein, che disperderanno l’ammassamento antifascista. Il successivo autunno 1944 sarà caratterizzato dalla smobilitazione ed esfiltrazione dietro le linee angloamericane di gran parte dei guerriglieri a seguito del Proclama Alexander e del rinvio di una offensiva contro la Linea Gotica. Lo scemare della presenza partigiana vide una crescente collaborazione delle popolazioni con le autorità italo-tedesche e i rapporti partigiani della Val d’Enza segnaleranno con preoccupazione l’azione di denuncia della guerriglia da parte di  tante donne: i partigiani non avranno scrupoli a catturarne ed ucciderne. I primi mesi del 1945 sono quelli dello scontro finale. Un giovane esponente fascista non esiterà a scrivere su un giornale reggiano di assistere ad un mare di sangue. Il primo Gennaio 1945 nella collina i partigiani comunisti, per intimidire la popolazione che informando le autorità impediva loro di operare, prelevarono un gruppo di cittadini, fra cui due donne ed un ragazzo, che uccisero facendo sparire i corpi, forse bruciandoli in una fornace. La Brigata Nera Pappalardo, espulsa da Bologna dopo aver distrutto la base dei gappisti bolognesi, venne ad insediarsi nella bassa modenese e riunì nella propria formazione anche i militi reggiani. Sono mesi tremendi, con uno scontro anche frontale a Fabbrico dove i ragazzini in camicia nera della Giovanile reggiana affrontarono un intero raggruppamento partigiano in un sanguinoso scontro in campo aperto [recentemente è stata pubblicata dalle Edizioni all’insegna del Veltro la memoria di Giacomo Ghisi, ultimo superstite della battaglia che affrontò all’età di tredici anni]. La guerra si concluse con l’esodo partigiano dalla bassa verso la montagna per sfuggire alla tenaglia fascista. Quando il 24 Aprile le colonne corazzate si avvicinarono a Reggio, c’erano solo poche decine di partigiani sul posto pronte ad entrare in città, ancora presidiata da franchi tiratori fascisti disposti all’ultima raffica. All’ombra dei carri Usa nella pianura si compirono esecuzioni di massa di fascisti, dei loro famigliari, di chiunque poteva rappresentare qualcosa di non digeribile alle formazioni partigiane comuniste. Il Prefetto antifascista Pellizzi parlò di mille reggiani uccisi nell’ora della Liberazione. Le formazioni comuniste avevano avuto un sostegno segreto da parte della Goff Chain, la cellula segreta dei servizi statunitensi OSS, formata da veterani marxisti della guerra di Spagna, per lo più Ebrei, che dirigeva verso i partigiani di Togliatti i lanci di armi e di agenti speciali. Può sembrare paradossale, ma dove l’operazione raggiunse i massimi livelli d’efficienza fu proprio in terra reggiana, come testimoniano gli entusiastici rapporti del Commissario politico stalinista Eros Didimo Ferrari: addirittura chiedeva agli Americani bombardamenti aerei sulle borgate appenniniche in mano ai Fascisti. La studio sull’accordo OSS – Pci è stato raccolto nel mio libro Communists.

Le donne vittime della guerra partigiana: riguardo ai casi trattati, vi sono caratteristiche che li accomunano?

Oltre settanta donne reggiane vennero uccise dai partigiani, altre ferite o seviziate. Dal 1943 al 1946, quindi anche dopo la fine delle ostilità. Gli assassini furono sempre elementi provenienti da formazioni comuniste. La resistenza non comunista, Fiamme Verdi o Giustizia e Libertà, molto minoritaria, spesso letteralmente inquadrata dai servizi speciali inglesi, assiste alla violenza comunista, la contesta a volte, raramente muove per impedirla. La solidarietà e complicità antifascista è vincente. Le donne spesso erano le mogli dei fascisti o dei reggiani che venivano il più delle volte prelevati dalle loro abitazioni. Anche le Ausiliarie reggiane della Rsi erano vittime di agguati. Al momento del crollo militare subiranno crudeli violenze. A Villa Sesso – dove oggi rimane un imponente murales partigiano che ricorda la fucilazione dei componenti del comando sappista locale -, i partigiani avevano fatto irruzione nella casa di una famiglia fascista massacrando anche due ragazze. In località Osteriola una croce di legno ricorda una ragazza violentata dai partigiani davanti al padre prima di essere uccisi entrambi. Lo storico cattolico della resistenza reggiana Sandro Spreafico non si dà pace a pensare che non vi sia stato pentimento per lo stupro e il massacro di due giovani Ausiliarie i cui corpi vennero abbandonati in un fosso. Ancora oggi il silenzio avvolge la strage della famiglia Cigarini davanti all’anziana madre, lasciata dai partigiani viva davanti ad un mucchio di corpi insanguinati. Tutto questo si ripete settanta volte e più.

Nel testo cita la storia di Marianna Azzolini. Puo parlarcene?

Marianna Azzolini era la sorella del Dott. Pietro Azzolini, ufficiale medico e notabile di Vetto d’Enza, veterano di Russia, poi nella Guardia Nazionale Repubblicana. Pietro era amico di un altro medico, Pasquale Marconi, anche lui esponente carismatico della montagna, ma che si schierò con i partigiani. A Marzo 1944 si scatenò l’infernale spirale di agguati e rappresaglie in Appennino, nel momento che i comunisti decisero (richiesti dagli Angloamericani) di iniziare la guerriglia in montagna. Pietro Azzolini e Pasquale Marconi si precipitarono a tentare di salvare la popolazione. In certi casi vi riusciranno. Ma a Giugno, quando vennero ritirati i presidi fascisti, Pietro Azzolini, che aveva deciso di rimanere in Appennino, venne prelevato dai comunisti e trucidato a colpi di zappa. A Dicembre fu la volta della sorella Marianna, che non nascondeva la sua posizione antipartigiana: venne prelavata, violentata e reclusa. Condannata a morte da un tribunale partigiano verrà salvata dalle attenzioni di Pasquale Marconi, che non era riuscito a impedire la morte del fratello. Vivrà il resto della vita lontano da Reggio, ottima insegnante. La nipote Laurenzia farà alzare una grande croce sul luogo del martirio dello zio. Una scrittrice di Modena, Elena Bianchini Braglia scriverà un romanzo storico dedicato a Marianna. Laurenzia oggi ha fondato una associazione culturale dedicata a Pietro e Marianna che ogni mese promuove iniziative di studio della storia. Gli Azzolini hanno sfondato il muro dell’omertà, senza paura di affrontare i processi. Sono una coraggiosa eccezione.

Dopo essersi occupato della violenza partigiana, come valuta l’ordinanza della prefettura capitolina del 27 ottobre (di alcuni giorni fa), che prescriveva: «E’ interdetto l’accesso al pubblico presso il Cimitero del Verano per l’intera giornata del 28 ottobre 2022». Ricordiamo che al Verano c’è un monumento che ricorda i martiri fascisti.

La Costituzione della Repubblica non cita mai le parole antifascismo, resistenza, guerra di liberazione. Il termine Fascismo è presente solo in una disposizione transitoria, la Dodicesima, composta da due commi: nel primo si vieta la ricostituzione del disciolto Partito Fascista. Nel secondo comma, molto poco conosciuto e citato, si dice che dopo cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione i capi del Fascismo potranno essere rieletti. Giustamente una disposizione transitoria. Invece, allo scadere del termine dei cinque anni, nei primi anni Cinquanta, venne emanata la Legge Scelba, che introduceva le note norme di repressione di atti riferibili al Fascismo. Tra cui l’apologia, evidentemente nel timore che solo dopo pochi anni dalla fine di una guerra disastrosa, tra gli Italiani maturasse la convinzione che si stava meglio prima. Nel 2022 siamo di fronte alla medesima situazione. Il Fascismo viene o realmente temuto dal regime democratico – anzi partitocratico -, oppure viene usato come spauracchio o clava politica buono per ogni più bieca strumentalizzazione. Questo avviene in Italia, ma anche a livello internazionale persiste una damnatio memoriae e una conventio ad escludendum. Questo si spiega con il fatto che non si è ancora esaurito il ciclo storico emerso dalla conclusione della Seconda Guerra Mondiale. Ancora persiste il potere e l’egemonia degli ormai antichi vincitori.

Matteo Pio Impagnatiello