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Home Archivio 900

La verità sulle indagini su Fausto e Iaio

Max Mazzanti di Max Mazzanti
09/05/2025
in Archivio 900, BOLOGNA
0
La verità sulle indagini su Fausto e Iaio
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Giustamente, come ha scritto Ugo Maria Tassinari, sul duplice delitto di Fausto e Iaio “o hanno ritrovato i reperti dispersi o mai acquisiti o sarà il solito pestare l’acqua nel mortaio”. Curiosamente, questa decisione del tribunale di Milano, è stata assunta in concomitanza con le polemiche circa le commemorazioni di Sergio Ramelli.

Fuor d’ogni polemica, cosa si sa di quel lontano e misterioso assassinio dei due ragazzi?

Il riassunto è abbastanza facile: si sa che Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci sono stati assassinati in un’oscura sera del 18 marzo 1978, più o meno alle ore 20.00, in via Mancinelli. Si conosce altresì l’arma del delitto: una pistola calibro 7.65. Secondo gli inquirenti, potrebbe trattarsi di una “Beretta mod. 34”, in origine in calibro 9 modificata, oppure una “modello 35”. A tutto ciò si può aggiungere che, vicino ai corpi, fu trovato un berretto di lana insanguinato e che non apparteneva né a Fausto né a Iaio.

Infine, grazie alla testimonianza di una donna, Marisa Biffi, è assodato che gli aggressori dei due ragazzi fossero tre, di cui uno solo avrebbe sparato. La teste riesce anche a descrivere sommariamente due componenti del commando: uno è snello, castano chiaro, alto circa 1 metro e 70, con indosso un impermeabile chiaro; il secondo ha fattezze molto simili, ma con n giubbotto color “marroncino”cammello”. Del terzo non si sa nulla.

Il killer sarebbe stato quello con l’impermeabile e impugnava la pistola avvolta in un sacchetto di plastica, per non disperdere i bossoli e rendere difficile l’identificazione dell’arma. Infatti, alla “Polizia “Scientifica” non resta altro da repertare, se non i proiettili estratti da quei poveri corpi, in un primo momento, classificati di marca “Winchester”. Dopo la sparatoria, i tre si sono allontanati a piedi, in direzione di via Leoncavallo.

Fine dei dati di fatto, degli elementi oggettivi.

Gli investigatori, però, non brancolano proprio nel buio. Pochi minuti dopo, nella vicina piazza Durante, la Polizia ferma per un controllo quattro ragazzi. Nel frattempo, a quegli agenti si avvicina un passante, tale Angelo Palomba, che indica loro una pistola per terra, poco distante, abbandonata sulla strada. Due dei ragazzi fermati, allora, Mario La Guardia e Claudio Zara, raccontano ai poliziotti come, pochi istanti prima, fosse passata una moto di grossa cilindrata, inseguita da “volanti” e “gazzelle”, con in sella due persone. Da questa moto, secondo i giovani, sarebbe caduto a terra un oggetto che avrebbe fatto un “rumore metallico”.

Questa pista, però, per circa un anno, non sarà coltivata.

Due giorni dopo, l’inchiesta imbocca la strada politica. All’Ansa di Milano, giunge una rivendicazione di quello che, a quel punto, sarebbe un attentato, a nome del sedicente “Gruppo armato Sergio Ramelli”. Il riferimento al militante del FdG assassinato proprio a Milano, nell’aprile di 3 anni prima, appare particolarmente interessante. Non ai presunti terroristi, però, i quali, dopo altri 3 giorni, rinnovano la rivendicazione, alla sede Ansa di Roma. Nel secondo caso, ad agire sarebbero stati elementi di un altro misterioso gruppo, l'”Esercito nazionale rivoluzionario – Brigata combattente Franco Anselmi”.

La nuova intestazione diventa ancor più interessante, poiché Franco Anselmi è un esponente dei nascenti Nuclei armati rivoluzionari, morto nel corso di una rapina a Roma – all’Armeria Centofanti – proprio il 6 marzo, solo nove giorni prima di Fausto e Iaio. Anche se dovrebbe far drizzare le antenne a chi indaga, il fatto che sarebbero stati assassinati due “compagni” a Milano, per vendicare un “camerata” ucciso da un negoziante a Roma.

Per altro, presumibilmente sempre quel 23 marzo, qualcuno scrive una lettera, indirizzata al “Commissariato Porta Genova” di Milano e lì giunta il giorno 25, in cui si assume la responsabilità della morte di Tinelli e Iannucci un altro fantomatico “Gruppo Prima linea Destra nazionale”.

Insomma, qualcuno insiste molto, per indirizzare le indagini in una direzione precisa.

C’è anche un’altra pista, però.

Nelle tasche di Iaio viene trovato un pezzo di carta col nome e i numeri di telefono di tale Mario Rigamonti. Costui frequenta un paio di locali – La Capannina e il Macondo – ed è anche amico di Celina Hernandez, la ragazza che Lorenzo ha conosciuto poco tempo prima e con cui si è messo insieme. Interrogato, Rigamonti racconta agli inquirenti come Iaio, proprio in quelle settimane, sarebbe stato impegnato a scrivere un “libro bianco” sullo spaccio di eroina nella sua zona, ventilando che fosse stato qualcuno del giro degli stupefacenti a mettere a tacere il giovane.

Inoltre, Mario racconta che Iannucci, qualche sera prima, alla “Capannina”, avrebbe discusso con uno del giro pericoloso, tale Frajo, il quale, a un certo punto, lo avrebbe anche minacciato: “Stai attento!… Ne riparleremo…”. Questa pista, però, non viene esplorata più di tanto. Gli amici e i parenti di Iaio non sanno nulla di questa sua presunta attività di indagine. Per di più, ammettono come Lorenzo saltuariamente fumasse hashish e, quindi, difficilmente avrebbe potuta avercela con gli spacciatori di droga.

C’è pure una terza ipotesi, sul tavolo della Polizia, sempre legata ai traffici di droga.

Un avvocato, Roberto Cappellaro, un mese dopo il duplice omicidio, segnala alla Polizia un prete, don Perego, della chiesa di Santa Maria Bianca. Il parroco, secondo il legale, avrebbe ricevuto confidenze sulla morte di Iaio e Fausto, in particolare dalla precedente fidanzata del primo, Paola Tedeschi, e dalla titolare di una pizzeria vicina a viale Argonne, Clementina Petruzzellis. Di più: una delle due avrebbe fatto al prelato anche il nome del possibile assassino, Carlo Granchelli.

Individuato, agli investigatori il prete precisa di aver ricevuto, in realtà, due telefonate da due distinte donne che si sarebbero qualificate, senza nemmeno precisare il nome, come “fidanzata di Iaio” e “titolare di una pizzeria in viale Argonne”, le quali, però, sostanzialmente avrebbero raccontato i fatti riportati dall’avvocato Cappellaro. Tutto finisce in un buco nell’acqua anche questa volta, in quanto, identificate le due donne, queste smentiscono di aver mai telefonato al parroco; mentre Granchelli, pur avendo qualche precedente, alla Polizia non risulta minimamente impelagato in traffici che possano giustificare un tale sospetto.

Ancora una pista, la quarta, a metà tra politica e “roba”.

Una settimana prima del duplice delitto di via Mancinelli, a Parco Lambro, vengono aggrediti Michele Damato e Gianluca Oss Pinter. I due ragazzi si trovano lì in compagnia di Marina Folchini e Monica Maghini quando, d’improvviso, una ventina abbondante di giovani saltano loro addosso. Gli aggressori hanno fazzoletti al collo e “chiavi inglesi” in mano e malmenano duramente i due maschi. In particolare si accaniscono contro Oss Pinter, accusandolo di essere “spacciatore” e “fascista”.

Dunque, a colpire sono stati i “rossi” e un infermiere, tra quelli che sono accorsi per prestare le prime cure ai due malcapitati, sente Oss Pinter dire a Damato d’aver riconosciuto qualcuno dei “compagni”. Circostanza che, però, sia l’uno che l’altro negheranno con la Polizia.

Quel che è certo, almeno a detta di Chiara Giuliani – la quale conosce gli aggrediti ed è anche compagna di studi di Fausto Tinelli, oltre che amica della sua ex, della Tedeschi -, è che Oss Pinter, nei giorni successivi, avrebbe girato, indossando un berretto di lana blu, molto simile a quello ritrovato insanguinato vicini ai corpi di Fausto e Iaio. Non solo. E’ altrettanto certo che Fausto e Iaio abbiano partecipato al pestaggio di Parco Lambro. Con quale ruolo? Impossibile saperlo.

La Tedeschi dice alla Polizia che la Giuliani gli avrebbe confessato come Fausto avesse partecipato alla “sprangata”. La Giuliani smentisce la Tedeschi, pur ammettendo che Tinelli fosse a conoscenza dell’aggressione. Il marito della madre di Fausto, Giuseppe Bruti, ammette di aver saputo che il ragazzo fosse stato a Parco Lambro, ma di essere arrivato a cose fatte, quasi casualmente. A parlar di ciò al nuovo compagno della madre di Fausto sarebbe stata la sorella di quest’ultimo, la quale, però, a sua volta sentita, nega tutto. Anche un amico intimo di Iaio, Aldo Verri, ammette come i due fossero presenti sul luogo dell’aggressione, pur insistendo sul fatto che sarebbero arrivati a sprangate già date.

Alla Polizia non resta che mettersi alla caccia dell’Oss Pinter, il quale, per di più, guarda caso, dal giorno della morte di Fausto e Iaio si è reso irreperibile. La “latitanza”, però, dura ben poco, ma, una volta agguantato, il ragazzo sembra sapere come difendersi. Per la sera dell’omicidio ha un alibi, sostenuto, seppur non in modo “granitico”, dagli amici Gianni Mazzeo e Monica Maghini. Inoltre, nega di aver riconosciuto Fausto e Iaio tra i “compagni” che lo hanno aggredito, pur ammettendo di essersi nascosto nei giorni successivi al loro assassinio, temendo che la Polizia mettesse in relazione i due episodi. Quel che è incredibile, è che non risultano agli atti analisi comparative tra il sangue di Oss Pinter e quello, di cui è intriso il berretto di lana trovato vicino ai cadaveri.

Ancor più folle, il fatto che quel berretto, di cui, nel 1978, si sarebbe potuto rilevare giusto il gruppo sanguigno, attualmente è pure scomparso. Pare gettato via dagli addetti ai “corpi di reato” del tribunale per ragioni, a dir poco, grottesche. Dunque, fine della pista.

La quinta pista, a destra grazie a un sinistro.

Il 21 marzo, tre giorni dopo la morte di Fausto e Iaio, Mario Bortoluzzi e Antonio Mingolla hanno un incidente in moto. Sopraggiunge la “Stradale” e gli agenti, soccorrendolo, s’accorgono che il Mingolla ha in tasca un revolver, una “Smith&Wesson cal. 44”. Immediatamente scattano le perquisizioni domiciliari e, a casa Bortoluzzi, vengono scoperte altre due pistole, una “Beretta cal. 6.25” e una “Beretta cal. 7.65”. Bortoluzzi ha anche un fratello, di nome Giuseppe. Tre ragazzi, armati e di simpatie politiche di destra: la pista è promettente. Tanto più che, nel bar abitualmente frequentato dal terzetto, la Polizia sequestra un impermeabile chiaro che, secondo la titolare dell’esercizio, Natalina Mazzocchi, è stato abbandonato lì uno o due giorni dopo il duplice omicidio.

Il caso sembra destinato a chiudersi in fretta. Di contro, pur avendo accertato che il capo di vestiario appartiene a Mario Bortoluzzi, la “Scientifica” non vi trova alcuna traccia di residui di sparo, il che rende fortemente improbabile che sia quello indossato dal killer che avrebbe sparato diversi colpi, contro Fausto e Iaio. La “Beretta cal. 7.65”, poi, risulta inservibile e non associabile ai proiettili estratti dai cadaveri dei due ragazzi. Inoltre, l’unico movente possibile – un’amicizia tra i tre, o qualcuno dei tre, con Oss Pinter, il ragazzo aggredito al Parco Lambro – non trova conferme decisive.

Agli investigatori, come si suol dire, non resta che brancolare nel buio.

Sesta pista, la misteriosa moto di piazza Durante.

Dopo un annetto, un giornale dalla testata inequivocabile, “La Sinistra”, pubblica una notizia. In piazza Aspromonte, non lontano da via Mancinelli, verso le 20 del fatidico 18 marzo del ’78, una coppietta avrebbe notato due motociclisti armeggiare intorno alla targa del loro mezzo. A scrivere il pezzo è Antonio Belloni, il quale, contattato dalla Polizia, consente agli inquirenti di rintracciare i due fidanzati che avrebbero notato il fare sospetto dei motociclisti l’anno prima. Si tratta di Pierre Manuel Oberson e Magda Margutti, i quali confermano le circostanze a chi indaga, sottolineando di aver annotato anche la targa del mezzo e di aver consegnato l’appunto proprio al cronista.

La Polizia, dunque, torna dal Belloni, il quale consegna un foglio, in cui è indicata la targa di una Kawasaki di colore verde chiaro: MI-538738. C’è anche il nome degli intestatari – perché il giornalista al Pra c’è già stato – e che sarebbero tali Marco Andreoli e Gaetano Russo. In realtà, gli investigatori appurano che Gaetano Russo ne sarebbe stato proprietario fino al 16 marzo 1978 (due giorni prima del delitto), per, poi, cederla a tale Antonio Ausilio.

Incredibilmente, gli accertamenti su questa pista si fermarono a poco più di questo, come ha rilevato il giudice Clementina Forleo nel decreto di archiviazione delle indagini, il 6 dicembre 2000. Incredibilmente, in quanto i pur scarni accertamenti avevano consentito di appurare non solo che si trattava di due pregiudicati, ma che dei due, Ausilio non solo aveva precedenti anche per tentato omicidio, ma risultava alto circa un metro e 70 e coi capelli castani. Una somiglianza col killer notato da Marisa Biffi che certamente avrebbe meritato maggior premura.

Le indagini si spostano a Roma. Sempre a destra.

Passano ancora altri mesi. Il 21 luglio 1979, nella Capitale, uno dei tanti fatti di violenza tra opposte fazioni. Quattro giorni dopo, la Polizia perquisisce la casa di Mario Corsi, un simpatizzante del Fronte della Gioventù, il quale frequenta pure il Fuan di via Siena. Agli agenti non par vero: forse, hanno fatto il colpaccio. A Corsi, infatti, tra le altre cose, vengono sequestrate delle foto di Iaio e Fausto. Perché le conserva? Dove se le è procurate?

Sembra esserci ben di più, nei cassetti del Corsi. Segnatamente, una lettera di un suo camerata di Cremona, Mario Spotti, datata 9 agosto 1978, in cui si legge, a un certo punto: “Mi ricordo spesso del povero e carissimo Franco quando guardo mia “sorella”, ma è meglio non pensarci! Spero di vederti presto. A noi!!!”. Per gli inquirenti, sono parole chiarissime: Corsi è un estremista di destra; ha contatti con la Lombardia; si tiene in contatto con camerati armati (“sorella”, in gergo, indica la pistola); conosceva e parlava di Anselmi (il “caro Franco”) coi camerati nelle settimane successive alla morte del Nar e di Fausto e Iaio. E, appunto, quelle foto…

I primi accertamenti sembrano promettenti. Corsi effettivamente è stato a Cremona più volte e, in quel periodo, in quella città si trovava anche un altro esponente delle Destra romana, Guido Zappavigna, militare di leva proprio lì. Lo Spotti, interrogato, ammette che la “sorella”, a cui si accenna nella lettera, è effettivamente una pistola. Precisa che si tratta di un’arma di fabbricazione turca, cal. 7.65, ma che ha gettato nel Po, e che gli avrebbe venduto precedentemente Franco Anselmi.

In realtà, la Polizia deve prendere atto anche della veridicità di alcune affermazioni che Corsi ha fatto dopo l’arresto. In primo luogo, quella di essersi recato a Cremona anche perché lì avrebbe dei parenti. In particolare, una zia, Lina Bertoni, che conferma la circostanza. Sulle foto “scottanti”, poi, Corsi ha spiegato di averle prese da uno zio giornalista, insieme a tante altre, per curiosità. E Sergio Greco, cronista del “Sole d’Italia”, avvalla le parole del nipote.

Anche sui rapporti con altri camerati milanesi, gli indizi si moltiplicano, ma non riescono mai a trasformarsi nella benché minima prova che possa in qualche modo legare il romano al duplice delitto tanto efferato.

Arrivano i “dei ex machina”: Paolo Bianchi e Angelo Izzo.

Insomma, quando anche la pista romana sembra destinata ad arenarsi miseramente, ecco apparire all’orizzonte i soliti “pentiti”. Nel caso di Corsi, in relazione a Fausto e Iaio, si tratta di Paolo Bianchi e Angelo Izzo. Siamo già negli anni ’80. Dalle bocche di questi due soggetti – giudiziariamente parlando, sputtanatissimi, specialmente il “mostro del Circeo” – escono rivelazioni che, più che a illuminare la mente degli inquirenti e degli investigatori, dimostrano solo a quale grado di abiezione possano scadere i meccanismi processuali italiani, se necessitano del sostegno di tali, inqualificabili soggetti come testimoni a supporto dei teoremi accusatori.

Quel che è certo, è che tutta la paccottiglia messa insieme in anni e anni di indagini senza costrutto porta all’archiviazione delle accuse contro Corsi. Però, come spesso accade in questo genere di documenti, pur di non sbugiardare i colleghi, la Forleo libera il romano dalle accuse, dopo aver scritto: “Pur in presenza dei significativi elementi indiziari a carico della destra eversiva ed in particolari degli attuali indagati, appare evidente allo stato la non superabilità in giudizio del limite appunto indiziario di questi elementi, e ciò soprattutto per la natura de relato delle pur rilevanti dichiarazioni”.

Adesso, dove punteranno i riflettori, i magistrati?

Sicuramente, la “rilettura” degli atti di cui si parla in queste ore, è legata al paragrafo appena citato. Quindi, per Corsi e per Massimo Carminati – i pentiti identificarono nel “Cecato” l’altro possibile assassino di Fausto e Iaio – si prospettano nuove grane giudiziarie. Anche perché le piste più promettenti e legate a dati oggettivi – quella legata alla moto o quella del berretto di lana blu – sono ormai impraticabili, anche per la perdita, per incuria, delle prove stesse. Senza contare, poi, che la “pista Oss Pinter” è impraticabile, in quanto costringerebbe a dare delle due vittime un’immagine molto diversa, rispetto a quella cristallizzata nella narrazione. Fausto e Iaio, infatti, in quella ipotesi, diventerebbero le vittime di una reazione, a seguito di un pestaggio a colpi di spranga consumato ai danni dell’omicida, con la loro partecipazione o presenza.

Insomma, non sarà battendo vecchie strade, mediante i soliti teoremi, che Tinelli e Iannucci troveranno giustizia per la loro morte.

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