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Cavallini, le motivazioni della condanna sollevano inquietudini sulla “salute” del Diritto in Italia

Massimiliano Mazzanti di Massimiliano Mazzanti
15/04/2025
in Bologna - Cronaca, Cronaca
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Contro l'ex-terrorista solo prove già valutate diversamente e giudizi storici privi di fondamento Le motivazioni che illustrano le ragioni che avrebbero convinto la Corte di Cassazione a confermare la condanna di Gilberto Cavallini, come quarto autore della Strage
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Contro l’ex-terrorista solo prove già valutate diversamente e giudizi storici privi di fondamento

Le motivazioni che illustrano le ragioni che avrebbero convinto la Corte di Cassazione a confermare la condanna di Gilberto Cavallini, come quarto autore della Strage di Bologna, quali che siano le convinzioni che ciascuno può avere su quell’evento e sui processi che lo hanno valutato e giudicato, chiariscono solo le tutt’altro che buone condizioni dello stato di salute del Diritto in Italia.

A sostegno della decisione assunta, infatti, i magistrati della Suprema corte indicano essenzialmente quelli che il pubblico ministero Enrico Cieri, il quale chiese e ottenne la condanna di Cavallini in primo grado, definì i “quattro chiodi” e, cioè, la testimonianza di Massimo Sparti – sulla scarsa credibilità del quale, ormai, esiste un’intera letteratura -; la vicenda di “Ciccio” Mangiameli; la telefonata fatta da Luigi Ciavardini all’allora fidanzata Cecilia Loreti; aggiungendo la “rivelazione” di Vettore Presilio – altra “perla giudiziaria” di rara brillantezza – e il fatto di aver fornito a Valerio Fioravanti – lui, Cavallini – un documento falso e di aver ospitato gli stessi “Giusva” e Ciavardini, nonché Francesca Mambro nella sua casa trevigiana, oltre che ad aver dato loro l’auto per raggiungere Bologna.

La Cassazione

A non tornare, in tutto ciò, è che la Cassazione è tenuta a emettere giudizi di legittimità e, dal momento che tutti quelli sopra ricordati sono elementi non solo conosciuti da tempo immemorabile, ma che costituirono le ragioni, in base alle quali Cavallini fu processato e condannato – per concorso in banda armata finalizzata anche alla realizzazione della strage – negli anni ’80 e ’90, non si comprende come non insorga, nei suoi confronti, il principio del “ne bis in idem“. Fosse anche vero che l’ex-terrorista milanese, in base a quegli indizi, sarebbe stato da considerare non un “concorrente” della “banda Fioravanti”, ma uno degli autori della Strage di Bologna, essendo già stato indagato e processato, con altro esito, proprio la Cassazione avrebbe dovuto decidere diversamente dai giudici di Bologna.

Certo, gli estensori della motivazione resa pubblica oggi tentano di spiegare in cosa differirebbero le accuse di allora da quelle tardivamente lanciate trent’anni dopo la prima sentenza per la Strage, ma le parole che spendono non possono certo cambiare la sostanza delle cose.  

Per altro, questo testo che qualcuno oggi definisce niente meno che “storico”, proprio di fronte alla scienza dei fatti del passato si lancia in affermazioni addirittura irricevibili. Per esempio, quando i magistrati scrivono, a proposito del “patto” che fu stretto tra i nostri servizi segreti e le organizzazioni palestinesi nei turbolenti anni ’70, che sarebbe “emersa la assoluta inconsistenza di una ipotesi di accordo (il cosiddetto ‘lodo Moro’) nei termini ipotizzati dalla difesa del ricorrente (sorta di autorizzazione al transito di armamenti sul territorio italiano), trattandosi – di contro – di un sostegno politico alle aspirazioni di riconoscimento internazionale del Fronte di Liberazione della Palestina e non di altro (in cambio di non esecuzione di attentati sul territorio italiano)“. 

Il Lodo Moro

Ora, a parte che sfiora l’insulto all’intelligenza il solo pensare che un atto, che sarebbe stato squisitamente politico e di mera simpatia per le aspirazioni del popolo palestinese, avrebbe avuto la necessità di essere custodito, per decenni, con tanta segretezza. L’Italia, negli anni ’70 e ’80, pur giurando sulla propria fedeltà atlantica e sull’amicizia con lo Stato israeliano, vedeva interi partiti di governo e di opposizione “tifare” per Yasser Arafat e la causa palestinese, oppure correnti importanti con identica passione in quelli più “occidentalisti”. 

Se il “lodo Moro” fosse stata solo una manifestazione di solidarietà ideale, il governo di allora, proprio agli inizi del 1980, non ne avrebbe smentito radicalmente l’esistenza, al processo aperto a L’Aquila per i missili scoperti a Ortona, quando i magistrati abruzzesi chiesero chiarimenti su questo misterioso accordo, reso noto dall’avvocato difensore degli imputati in quel procedimento. E quando Mauro Mellini, che diventerà segretario del Partito radicale, sollevò quell’argomento per scagionare i suoi assistiti, non lo fece, appunto, perché quel “lodo” avrebbe consentito loro di trafficare coi missili, nel nostro territorio? Oppure, oggi, per i magistrati della Cassazione i missili non sono più armi? 

Questo passaggio, da un certo punto di vista, è forse il più preoccupante, tra quelli discutibili delle motivazioni della sentenza a carico di Cavallini, in quanto recepisce un troppo acriticamente l’interpretazione del “lodo Moro” che, nel dibattito storico accesosi ormai da molti anni, è coltivata, nutrita e cara solo al Partito democratico, anzi, a una costola ben precisa del Pd. 

Contraddizioni

Anche alcuni passaggi più specificatamente riferiti alle indagini effettuate o non sviluppate, nei decenni passati, risultano contraddittori, nelle motivazioni pubblicate. 

Per esempio, sulla questione sollevata dalla difesa di Cavalllini – composta dagli avvocati Gabriele Bordoni, Alessandro Pellegrini e Mattia Finarelli -, sulla presenza a Bologna, nel giorno dell’attentato, di un noto eversore tedesco, legato al gruppo Carlos e al terrorismo palestinese, si legge: “L’argomento della presenza di Thomas Kram a Bologna il 2 agosto è stato ampiamente esaminato nella decisione impugnata, con argomenti pienamente logici, posto che Kram era stato identificato al valico di frontiera il giorno antecedente e aveva utilizzato, per il pernottamento a Bologna, il proprio documento di identità originale, aspetto che esclude il suo coinvolgimento operativo in un evento delittuoso di simile portata“. 

In primo luogo, non si può non rilevare come, per i giudici della Cassazione, sembri sufficiente agire coi propri documenti in tasca, per essere esclusi dal novero degli indiziati di un delitto. 

In secondo luogo, nel “caso di specie”, come s’usa dire in termini giuridici, l’affermazione della Suprema corte potrebbe risuonare addirittura ovvia, ma, appunto, partendo dalla convinzione indiscutibile che a Bologna si sia necessariamente premeditato e consumato un attentato, il 2 agosto 1980. In quella cornice, sì, è logico che l’autore del crimine si sarebbe mosso con determinate cautele. 

Kram

Il problema è che la presenza di Kram – e quella accertata di un’altra pletora di terroristi rossi, quel giorno, alla stazione di Bologna – è legata a uno scenario ben diverso e, cioè, di un’esplosione accidentale, appunto, di un ordigno destinato a un diverso obbiettivo. Se Kram, che in quel momento non era ricercato, fosse stato a Bologna per presiedere a un trasporto di esplosivi, non avrebbe avuto affatto necessità di mascherarsi dietro una falsa identità. Anzi, se avesse cercato di entrare e di muoversi in Italia sotto mentite spoglie, avrebbe rischiato attirare su di sé attenzioni inutilmente. 

In terzo luogo, poi, i giudici della Cassazione non prendono in considerazione l’ipotesi che Kram girasse coi suoi documenti semplicemente perché conscio di non aver nulla da temere dalla Polizia o dai Servizi segreti italiani, godendone dei favori. Ipotesi tutt’altro che peregrina, alla luce del fatto che, di quel suo essere in Italia e a Bologna il 2 agosto 1980, se ne venne a conoscenza solo casualmente oltre vent’anni dopo, sulla scorta di documentazione che dimostra contestualmente come la sua presenza fosse stata accuratamente nascosta a inquirenti e investigatori dagli “spioni” nostrani. 

Le strade storte del Diritto

Di contro, gli stessi giudici valutano, quale essenziale elemento di colpevolezza a carico di Cavallini, il fatto che, quando imputati per aver compiuto la strage erano solo Fioravanti, la Mambro e Cavallini, lui si sarebbe accordato con gli altri tre per fornire loro l’alibi necessario ad aggirare la tremenda accusa.

Dunque, per gli stessi giudici che trovano illogico che un criminale vada in giro coi propri documenti in tasca, avendo l’intenzione di commettere un reato; è credibile, invece, che degli imputati del più grave crimine mai compiuto in Italia, dovendo procurarsi un alibi, avrebbero chiesto di procurargliene uno non a una persona al di fuori d’ogni sospetto, ma proprio all’unico complice non ancora scoperto. E che questo complice, cioè, Cavallini, invece di restarsene il più possibile lontano da quell’accusa, si fosse reso disponibile a fornirglielo, mettendosi di sua spontanea volontà sotto la lente di una magistratura che, per altro, almeno ai suoi stessi occhi, appariva prevenuta e politicizzata? 

Se tutto questo appare serio, non ci si può che rassegnare a vivere in una società in cui il Diritto viene condotto solo per strade storte. 

Massimiliano Mazzanti

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