In questi giorni si è consumata una delle tante piccole rappresentazioni simboliche della politica italiana contemporanea. Matteo Salvini, vicepresidente del Consiglio, è stato premiato alla Camera dei Deputati per la sua “amicizia con il popolo israeliano”.
Un evento che, in un altro momento storico, sarebbe sembrato una banale celebrazione diplomatica.
Ma oggi – con una guerra devastante in corso, con decine di migliaia di vittime civili, con un’intera popolazione intrappolata sotto le bombe – questo gesto assume un sapore diverso: quello della dissonanza, dell’indifferenza, della messinscena.
Nel Parlamento di una nazione che da decenni non ha una voce autonoma in politica estera, si celebrano alleanze come se fossero gesti eroici, quando in realtà sono quasi sempre solo inchini preconfezionati. Salvini si presenta come il “patriota” che difende i valori dell’Occidente, ma di patriottismo – quello vero, fatto di autonomia, responsabilità e dignità nazionale – non c’è traccia.
L’evento sembra piuttosto una conferma di fedeltà, l’ennesimo scodinzolio ben calcolato davanti all’interlocutore del momento: fosse anche un’accozzaglia di lobbisti. Ma attenzione: il problema non è Salvini. Il problema è l’intero ceto politico, trasversale, senza distinzioni.
È una classe dirigente – con pochissime eccezioni – che non pensa con la propria testa, che non decide nulla di davvero serio, e che vive ormai di piccoli premi consolatori, come cani ammaestrati in attesa del biscottino da parte del “padrone” di turno. Che sia Washington, Bruxelles, Parigi, Tel Aviv o chiunque altro capiti in cima alla gerarchia del momento, cambia poco. La dinamica è sempre la stessa: ricevere elogi, certificati di “buon comportamento”, photo opportunity e magari qualche incarico internazionale in prospettiva, in cambio di obbedienza, allineamento, silenzio.
In questo contesto, le guerre non sono tragedie da fermare, ma occasioni per posizionarsi, per mostrarsi fedeli, per recitare il ruolo del difensore dell’ordine mondiale – purché l’ordine non lo si decida qui, ma altrove. Così il conflitto in Medio Oriente ,esattamente come quello in Ucraina, non viene discusso seriamente.
Non si analizzano cause storiche, responsabilità politiche, possibilità di pace. No: si sceglie una parte da sostenere a prescindere, si recitano slogan, si sfoggiano bandiere, e si costruiscono alleanze fittizie utili solo sul piano mediatico. La morte reale, quella che avviene a Gaza, è solo lo sfondo.
La distruzione, la fame, l’orrore non interessano davvero. Servono soltanto a stimolare reazioni nei propri pubblici: indignazione, approvazione, divisione. Tutto si riduce a messaggi da 280 caratteri. Anche le proteste della sinistra, puntuali come un riflesso condizionato, si rivelano per quello che sono: parole vuote, teatrini moralisti senza il minimo coraggio (e forza) di incidere davvero.
Si denunciano crimini, si parla di genocidio, ma non si propone nulla di pratico. Nessuna rottura diplomatica, nessun voto concreto, nessuna mobilitazione strutturata. Solo indignazione rituale, utile a distinguersi ma mai a cambiare davvero qualcosa.
La politica italiana si muove in questo schema da decenni: non più come soggetto, ma come comparsa. Non più con una linea autonoma, ma in attesa di sapere chi applaudire. Non si difende l’interesse nazionale: si difende l’equilibrio interno della propria fazione, in base alle coordinate esterne ricevute.
E intanto l’Italia – Paese un tempo rispettato per la sua intelligenza diplomatica, per la sua posizione strategica, per la sua cultura del dialogo – resta ai margini. Margini morali, margini geopolitici, margini spirituali. In nome di cosa, esattamente, si premia un ministro in questo momento storico?
Per l’allineamento cieco? Per l’obbedienza ai dogmi imposti da altri?
O forse solo per aver scelto la parte “giusta” nel copione scritto da altri? Qualunque sia la risposta, resta una sensazione sgradevole.
Una sensazione di vuoto. Di cinismo. Di politica ridotta a esercizio di fedeltà.
E soprattutto di distanza abissale tra chi decide e chi vive. Chi ha ancora il coraggio di chiamarsi italiano con dignità, oggi dovrebbe dire basta a questa farsa.
Basta inchini, basta ipocrisie, basta premi inutili nel bel mezzo della tragedia. L’Italia ha bisogno di verità, di autonomia, di uomini veri.
Non di figuranti in cerca di servile approvazione.
Gianluca Mingardi
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