Non credo fosse necessario muovere le statistiche né formulare quiz sofisticati per provare che le società moderne non sono popolate da aquile.
Potevano risparmiarsi, sociologi e statistici, tanto penoso travaglio e tanta superflua fatica perché i limiti intellettuali dell’uomo contemporaneo marciano assieme a quelli morali…e marciano verso il baratro!
Le ultime ricerche rivelano che il 35% degli italiani non sa comprendere 10 righe di testo dal contenuto semplice e dalla forma appena articolata; la maggior parte dei liceali non sa affrontare un interlocutore che, su qualsivoglia argomento, lo metta alle strette da un punto di vista logico…argomentare in modo non emozionale, ma ragionando, è una modalità ormai sconosciuta.
Il picco dell’intelligenza
Il dato che spaventa, ma, lo ripeto, non stupisce è che, al contrario di ciò che sarebbe fisiologico, il picco dell’”intelligenza” (la capacità di comprendere, argomentare, ricordare, elaborare, dedurre, analizzare, verificare) nel nostro Paese si raggiunge con la maggiore età, cioè con il compimento dello sviluppo fisiologico, mentre dovrebbe verificarsi intorno ai trent’anni.
Due sono, a questo riguardo, i problemi che si pongono: il primo è che quel picco è sempre più basso cioè sempre minori, più ristrette, limitate, compresse, deficitarie, elementari sono le competenze che, unite, chiamiamo intelligenza; il secondo riguarda l’aspetto temporale: finita l’adolescenza, i dodici anni di splendida giovinezza del cervello, da noi, ormai, sono anni sprecati.
Il periodo in cui la mente produce con più esplosività, 18/30 anni, in quanto sostenuta dall’esercizio, dalla competenza e da una maggior conoscenza, in Italia è già un periodo di declino.
Solo l’1% della nostra popolazione, anche trentenne, è in grado di risolvere quiz su problemi di semplice soluzione, solo il 5% sa leggere testi complessi.
Chiamati ad ascoltare un telegiornale, la maggioranza degli italiani di qualsiasi età e ceto non sa ripetere cosa ha ascoltato non solo perché non ha capito, ma perché non ha memorizzato.
Il frutto dell’esercizio
La capacità mnemonica degli uomini delle società antiche, quella dell’uomo colto del Medioevo e persino la memoria dei nostri bisnonni, appare a noi contemporanei quasi miracolosa, ma non era un dono di natura, bensì il frutto di un esercizio costante indispensabile alla vita quotidiana, sociale o economica che fosse.
Ciò che ho nella memoria forgia ciò che sono in grado di pensare; per questo non credo casuale l’aver sottratto ai ragazzi la fatica dello studio mnemonico della poesia…un cervello che conosce a memoria Dante o Petrarca non può non essere un cervello poetico; un cervello che conosce a memoria stralci di lingua sublime non potrà non riconoscere il brutto ed il volgare!
La mancanza di allenamento delle facoltà mentali, lo scarso interesse per lo studio e per la lettura, si associano ad un’altra questione poco studiata e che, a mio avviso, meriterebbe un approfondimento: la tendenza all’omologazione che, naturale nell’adolescente, ormai è divenuta un tratto tipico anche dell’adulto.
I ragazzi di sessant’anni
Un uomo che rimane “ragazzo” fino alla soglia dei sessant’anni ed una visione della vita come eterno weekend nel quale l’unica attività sospirata è il divertimento becero, cioè lo sfogo del proprio infantilismo, non possono contribuire né alla costruzione del carattere né allo sviluppo di qualsivoglia facoltà mentale che non sia la ricerca su google dell’hotel più conveniente, della ragazza più “vivace”, del vestito più abbordabile.
Come fa questo adulto teen ager – costantemente alle prese con le sue frustrazioni, con il suo volere ciò che non può permettersi, con la sua incurabile immaturità, con una mente rivolta, dai tempi della scuola, solo al banale – come fa a porsi degli obiettivi di una qualsivoglia nobiltà, di un qualsivoglia spessore?
Perché dovrebbe sforzarsi di elaborare personalmente una informazione rischiando lo scomodo scontro con le proposte della società? Perché approfondire rischiando di scoprire che ciò che gli propinano è falso? Per quale motivo pretendere che il proprio figlio a scuola studi se basta esser presenti per venir promossi? E perché il genitore dovrebbe impegnarsi nell’educare il figlio alla fatica che lui stesso aborre mettendo così a repentaglio la sua credibilità (non può pretendere il genitore che i figli si impegnino in uno sforzo che lui ha sempre evitato!) e il proprio quieto vivere assicurati da una scuola nulla e da una educazione inesistente?
La comprensione
Imparare per ampliare la propria capacità di guardare al mondo (dunque di intelligere, cioè di comprende in modo approfondito!) vuol dire faticare, esercitare uno sforzo, mantenere una tensione, affrontare dei limiti, provare a superarli, forse non riuscirci e, con ciò, fronteggiare la conseguente frustrazione.
Si tratta di un “gioco” faticosissimo, ma la fatica che rende liberi, la fatica che rende unici, è esattamente ciò che quasi nessun italiano ha voglia di affrontare. Il cuscino del “pensiero unico dominante” è troppo morbido… come la lana delle pecore, animale che sempre più ci rappresenta come individui e come società.
Irma Trombetta
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