Il velo islamico è un capo di vestiario che, ab origine, ha più o meno lo stesso valore del fazzoletto che mia nonna non disdegnava di portare in testa e che non dovrebbe suscitare opposte considerazioni di valenza ideologica.
Noi italiani, ma gli altri europei non sono da meno, affrontiamo la questione «velo islamico» partendo da premesse che premesse non sono: l’uomo musulmano, identificato per essere il patriarca per antonomasia, opprime la sua donna imponendole di coprirsi il viso. Non è esattamente così.
Posso testimoniare che, fatti salvi i paesi ove impera il wahhabismo, raramente le donne dei paesi arabo-islamici portano il velo e quando lo portano lo portano per comodità, oppure durante le ricorrenze come tocco di eleganza tradizionale e identitaria.
Le regole
L’Islam, pur essendo una religione «costrittiva», nel merito prevede solo lo hijab, ossia il foulard che copre la testa e non il viso; le altre fogge vestimentarie (chador, niqab e burka) sono attribuibili a consuetudini di natura tribale di nazioni come l’Afghanistan e il Pakistan; quanto all’Iran dove in pubblico il porto del velo per la donna è obbligatorio, in realtà si tratta di hijab, al massimo di chador che comunque lascia scoperto il viso.
In Occidente lo vediamo come il simbolo dell’Islam «nemico delle donne» e suscita in noi un sentimento di avversione, adesso maggiormente fastidioso in quanto lo identifichiamo come il vessillo della militanza islamista.
In realtà, quello che viene portato dalle donne nella maggior parte dei paesi arabo-islamici (esclusi i soliti paesi wahhabiti ove l’Islam, più che religione è diventato ideologia) è lo «hijab» e rappresenta comodità, tradizione e identità; solo le pasionarie dell’islamismo attivo lo indossano a mo’ di vessillo della fede e allora si ha il chador, il niqab e il burka.

Gli islamici in Europa
È tuttavia vero che esiste una terza interpretazione, quella delle comunità islamiche stanziate da noi. È innegabile che nei discorsi da bar, oppure a margine dei sermoni nelle moschee o nei dialoghi famigliari passa un luogo comune che, più o meno, è riassumibile così: «le donne europee vestono in maniera dissoluta, è bene che le nostre donne sottolineino la differenza vestendosi come tradizione comanda», e in questo caso la tradizione suggerisce lo «hijab».
Assunto ciò, smettiamola con l’ipocrisia di chi è privo degli attributi atti a far rispettare come si deve la legge e ricorre al solito trito e ritrito adagio per cui la donna musulmana che porta il velo (burka, niqab o chador, finanche il più arioso hijab) lo porta perché oppressa dall’uomo che la vuole sottomessa.
Una perdita di tempo
Il velo islamico come simbolo della sottomissione della donna musulmana è una questione di lana caprina che innesca una spirale di considerazioni che fanno solo perdere tempo:
1) non di rado è una libera scelta mirata ad affermare una identità spirituale sentita
2) comunque sarà difficile aver contezza se sia o meno una imposizione del tutore (padre, fratello o marito) perché basta che la velata attesti trattarsi di scelta personale perché l’opprimente tutore se ne tiri fuori.
C’è però una terza inconfessabile ragione che, in ottemperanza alla sincerità, confesso candidamente: se una donna musulmana si compatisce a portare il burka, il niqab o il chador perché il suo tutore (padre, fratello, marito) vuole così, ebbene, della sua liberazione non mi interessa molto, fatto salvo che per legge lei lo può portare solo in casa sua e non per la libera via.
Far rispettare la legge?
Ma se vi sta tanto a cuore la liberazione della donna musulmana, un modo per liberarla da quel vestimentario c’è e si identifica con il far rispettare la legge.
Pertanto, se da una parte non possiamo negare il porto dello hijab che si risolve in un foulard annodato più o meno elegantemente in testa a coprire parte dei capelli, dall’altra abbiamo l’obbligo di legge di vietare il vestiario che occulti il viso.
Perché non facciamo rispettare quel divieto?
Nel caso specifico del velo-sì, velo-no, noi siamo chiamati in causa per far rispettare le nostre leggi e consuetudini e sanzionare chi non le rispetta, pertanto io rimango in attesa che, finalmente, Poliziotti, Carabinieri, Finanzieri, Vigili Urbani, si decidano a fermare ogni «imburkata» o ogni «niqabata» e la portino in centrale per la doverosa identitficazione e l’altrettanto doverosa sanzione.
Non ci vuole molto a preventivare che dopo essere state fermate, identificate e sanzionate tutte le volte che si affacciano sulla pubblica via, le portatrici di burka e niqab (tutori spiacenti o meno) passeranno allo hijab.
Smettiamola di fare i pesci in barile, applichiamo le nostre leggi e contrastiamo fermamente chi le infrange e non rompete le scatole con la liberazione di donne le quali, magari, del nostro concetto di liberazione non sanno che farsene.
Corrado Corradi
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