Quando il compromesso diventa sistema, sparisce la responsabilità
La politica è da sempre compromesso. Lo sanno i politici, lo sanno i cittadini. Ma oggi questo modello ha contaminato tutto: i rapporti, le aziende, i contratti, i valori d’impresa.
La parola coerenza è diventata una minaccia.
Abbiamo fatto il callo a votare il meno peggio, ad accettare il meno inaccettabile, a difendere il meno incoerente. Abbiamo imparato a scegliere non ciò che ci rappresenta, ma ciò che si può negoziare (da Letta a Renzi, la farsa continua).
Il problema è che questa logica ha invaso anche il lavoro.
Non più il confine tra libertà e dovere, ma tra autenticità e opportunismo, tra coscienza e convenienza.
Il manager non ti dice più cosa vuole, ti sorride e ti chiede partecipazione. Il lavoratore non chiede più diritti, accetta benefit, flessibilità, uno spazio relax.
Entrambi sanno di scambiare qualcosa, ma nessuno nomina il prezzo.
Si chiama adattamento, ma è una rinuncia a voce bassa. (Resilienza? Meglio chiamarla rinuncia mascherata.)
È lo stesso meccanismo con cui il cittadino si guarda allo specchio e pensa: “Non mi piace, ma funziona”. È la liturgia del compromesso perpetuo.
E funziona davvero: tiene tutto in piedi, fa risparmiare conflitti, dà l’illusione che tutti siano inclusi.
Ma c’è un dettaglio che trascuriamo:
il compromesso, se diventa sistema, annulla la responsabilità.
Nessuno decide, nessuno è colpevole, nessuno è coerente. Tutti galleggiano.
Così si perde il senso, nella politica, nel lavoro, nella vita. Non per colpa di un regime, ma per eccesso di accettazione.
E allora, cosa ci resta da negoziare, dopo che abbiamo già svenduto l’onestà?