“Quest’anno mi si nota di più se faccio il risotto al nero di seppia o il maccherone anticomunista per il 25 luglio?”
“Quest’anno il fascismo lo posso sconfiggere comunque con la pastasciutta antifascista anche se escludo i celiaci?”.
Due domande, due facce della stessa medaglia. Se la rivoluzione non è un pranzo di gala, la politica italiana è una infinita cena dei cretini. Cerchiamo almeno di capire da dove nasce la capostipite di queste tradizioni culinarie. La pastasciutta dei fratelli Cervi era la reazione a venti anni di cucina futurista. Che detta così non credo spieghi molto. Approfondiamo alcuni capisaldi per capire il senso della cosa. La grande cucina italiana, quella della carbonara, della amatriciana senza cipolla e degli arancini nasce negli anni ’70. E più di qualche radice viene dall’altra parte dell’oceano. Per dirne una: la pastasciutta non era un piatto così diffuso prima della guerra.

Cucina Futurista
Dirò di più, non era nemmeno un piatto così italiano. I futuristi la disprezzavano perché appesantiva. Ma il fascismo la guardava con sospetto perché si era diffusa con il rientro degli emigranti dagli Stati Uniti. Ai tempi tutto il nord era terra di zuppe. Zuppe di riso (il risotto era una cosa quasi solo milanese). Dopo la polenta, erano il modo più comune in cui ci si alimentava. Al sud erano minestroni e pane. I maccheroni, invece, erano arrivati in Usa fin dall’inizio e là avevano avuto grosso successo tra gli emigranti. I quali tornavano indietro in almeno metà dei casi, portandosi dietro questa scoperta.
Insomma, mi perdonerete se faccio un paragone ardito: la pastasciutta era come Halloween. Nata tradizione cattolica ed europea, diventata americana, tornando indietro era stata vissuta come eterogenea dai difensori della tradizione. Si era, pertanto, fatta una dura lotta contro la sua diffusione, che infiacchiva lo spirito guerriero nazionale. Ed è diventata, dopo il 25 luglio, simbolo della reazione di pancia a un regime che, non vincendo più, non era più popolare tra la gente.
Il problema dell’intera vicenda è che la cucina futurista, che dovrebbe essere la risposta alla pastasciutta antifascista, è estremamente lontana dai nostri gusti. O dai gusti di chiunque abbia delle papille gustative. Quindi qualcuno lancia risotti e maccheroni. Perché rispondere a brigante, brigante e mezzo è più semplice che fermarsi e farsi due domande. La prima delle quali è: ma è davvero necessario fare politica con rognoni e animelle? La seconda è: ci siamo davvero ridotti a fare carne di porco della politica? Purtroppo, la risposta è sì.
Patrioti solo in cucina?
E lo è perché ormai, come popolo, ci riconosciamo solo ai fornelli. Non c’è patriota più ardito di chi vede mettere la panna nella carbonara (come facevano Marchesi e l’80% delle nostre mamme negli anni 80). Non esiste oltraggio che ispiri più repulsione dell’ananas sulla pizza (pietanza nata da un greco fregato da una pizzeria napoletana e spinto per vendetta a creare qualcosa che gli sembrasse migliore. Immaginate voi cosa devono avergli servito…). Ci ritroviamo assieme come Nazione solo nel commentare video di cucina. E la colpa non è del capitalismo o degli alieni, è la combinazione diabolica dell’esigenza profonda di essere popolo e del vuoto cosmico di sentimento patrio profondo.
Per questo un piatto di spaghetti (dovrebbero essere a logica tagliatelle, ma non sottilizziamo) può generare queste polemiche ridicole. Da cui, chi vuol fare parte di una comunità militante con riferimenti più alti, dovrebbe star ben lontano. Si lascino gli affamati politicanti alle loro forchette (non socialiste). Chi ha un’altra storia dovrebbe avere anche un altro orizzonte.
Brian Curto
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