Tra tutte le sequenze è sempre difficile scegliere la scena più emotivamente profonda della pellicola Cast Away. Guardando questo film, ognuno può formulare una o più riflessioni personali, dalle quali affiorano delle domande: per esempio, qual è uno dei temi che emerge dal film?
Prendiamo in considerazione il tema della speranza, ovvero quel senso di aspettazione che accarezza il pensiero di Chuck Noland, protagonista silenzioso e tenace, naufrago su un’isola dopo un disastroso incidente aereo. La speranza di salvarsi ne alimenta le forze e gli sfiora le labbra stropicciate e la pelle bruciate dal sole, labbra che si spalancano in un urlo liberatorio quando riesce a generare il fuoco frizionando pochi legni secchi, un ritorno simbolico tra le braccia dei nostri antenati; una sensazione, quella speranza, tutt’altro che leggera, pienamente percettibile per chi vede la pellicola, vivida, come se lo spettatore fosse lì, in compagnia di Chuck, che soffre e che spera che prima o poi riuscirà a lasciare quel pezzo di terra per tornare a casa.
È una speranza di salvezza che lo stesso spettatore inizia a invocare con passione di lacrime e tremori, un moto dell’animo in grado di essere un trasporto interiore capace di mettere a nudo, di spogliarci di qualsivoglia falsità, di ogni ammennicolo, di tutte le inezie che ci circondano e di cui ci ricopriamo, nudi, finalmente, come la natura ci ha plasmati, in un ritornare alle origini; perché lo senti, inizi a ritornare ad essere bestia, allontanarti dalle fasi avanzate delle civiltà evolute, e in qualità di animale primitivo fiuti il rischio che il protagonista corre: perdere qualcosa: la vita.
La scelta
Una perdita che viene esemplificata in una scena emblematica e altrettanto forte, che aiuta a comprendere che cosa significa ‘scegliere’: l’emaciato e asciutto Chuck che, assopito sopra la sua zattera, si distrae e perde la presa del suo amico Wilson, inerme e muto. Chi ha visto almeno una volta la pellicola non può dimenticare gli urli di Chuck quando vede allontanarsi l’amico Wilson, incapace di tornare indietro; una scena straziante, il cui dramma è ancora più intenso in virtù del fatto che Wilson non è una persona, bensì un oggetto, e quei sentimenti e quelle emozioni per quel pallone sono il vero sintomo di una disperata ma sincera umanità, e che ognuno, penso, saprebbe esprimere. E con questo giudizio, spingendo – forse – la mia presunzione oltre il limite, vorrei esprimere il pensiero che quasi probabilmente sono poche le persone che non si sono commosse di fronte a quella sequenza.
Sopra quelle poche assi sconnesse e quei pochi rami storti e umidi, legati da pochi filacci fragili e delicati, ritroviamo il simbolo della speranza, il simbolo di una potenziale salvezza. Quella zattera equivale a un atto di fede, all’atto finale verso una prospettiva di salvazione dai toni escatologici.
Cultura Cristiana
È innegabile che il nostro milieu culturale è intrinsecamente cristiano e che nella nostra prospettiva di cristiani ritroviamo anche questa visione di cui siamo intrisi: una speranza immaginifica che ci insegna che alla fine vi sarà quella ‘Fine’, seguita da una beatitudine eterna. Si tratta di quel ‘qualcosa’ – usando un termine grossolano e a dir poco profano – che una volta approdato alla fine, la tua esistenza sarà finalmente giunta a Casa, e starai bene, sarai felice, in uno stato di pace e di quiete difficilmente riscontrabili in questo mondo. È una visione che maturiamo nel tempo e sopra la quale ognuno, almeno una volta, sia chi crede che chi non crede, vi si è lasciato trasportare.
La zattera, la salvezza
Quella zattera è il simbolo della salvezza, ma quella sequenza è anche l’esemplificazione dell’assenza di quel coraggio necessario a lasciarsi trasportare, di lasciare ogni appiglio, anche la terra ferma, anche quella zattera. Poiché è complesso provare ad abbandonare quel rifugio che ognuno di noi reputa un riparo; spesso, il solo timore di tentare è più resistente delle radici che ci legano a quel porto sicuro. Questo coraggio è per pochi esseri, un coraggio che non appartiene a tutti: è una scelta elitaria. E se dovessi pensare ad un’immagine comparativa dalle tinte forti, definirei questa paura come la mancanza di quell’audacia di aprirsi il torace, cavarsi il cuore e soppesarlo nella propria mano per ascoltarne il battito ritmato e cadenzato color porpora per seguirne ogni impulso.
Quella zattera è anche il simulacro di una terra ferma che eppur si muove ed è in grado di trasportare via; un’illusione, forse, ma anche una speranza. Come ci si aggrappa il protagonista, così faremmo noi, pensando esclusivamente alla salvezza. Tuttavia, quella scialuppa sghemba è in movimento, non è immobile, e soggetta com’è alle intemperie e ai rischi della navigazione, come può rappresentare un luogo sicuro il suo scivolare lento sopra l’acqua? Anche lei si muove e trasporta lontano, come può dunque essere un porto scuro? E dunque, dove risiede la differenza tra lei e quel pallone? E se la salvezza non risiedesse nel restare attaccati a quella corda che lega Chuck alla zattera, ma consistesse nel lasciarsi andare e abbracciare quel profondo blu?
Lasciarsi andare
Se solo avessimo il coraggio di non farci vincere dalla paura e dal timore che soffocano tutte le altre emozioni, tutti i sentimenti vivi e freschi, quei desideri talmente forti che ti sfondano le tempie fino a farle esplodere, come quando vorresti abbracciare una persona. Per ognuno di noi, ogni tanto, l’imperativo dovrebbe essere quello di lasciarsi andare e lasciare alle proprie spalle le paure e tutta quella malsana volontà di voler pianificare e programmare; insomma, razionalizzare le nostre esistenze, pretendere da noi stessi qualcosa che probabilmente non sappiamo nemmeno ‘che cosa’; in special modo, voler piegare con presunzione la vita a giornate incasellate, ritagliate in compartimenti stagni, svuotate in partenza del fascino di quanto potrebbe accadere se solo lasciassimo quel tratto di corda che lega ognuno di noi alla nostra zattera. Forse, diversamente da Chuck Noland, qualche volta dovremmo raggiungere Wilson e afferrarlo, abbracciarlo e aggrapparcisi.
Non lasciare andare, bensì lasciarsi andare.
Riccardo Giovannetti
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