La cancel culture rappresenta un fenomeno controverso, che si manifesta attraverso la pratica di boicottare pubblicamente un’opera che qualcuno ha creato, per il messaggio che trasmette, o anche un individuo – spesso di fama – a causa di alcuni comportamenti o opinioni ritenuti offensivi, immorali o contrari allo spirito di un periodo storico. Questa dinamica può portare a perdite di sostegno, di opportunità professionali o di visibilità pubblica. Se analizziamo quelli che possono essere definiti – ma con cautela – gli aspetti positivi della cancel culture, essa può fungere da mezzo per fare luce su aspetti della società che una parte della comunità reputa essere nascosti o non considerati più di quanto si dovrebbe fare, richiamando all’attenzione la responsabilità di tutti i componenti di una società umana; un appello che viene rivolto a quegli individui e a quelle istituzioni che in virtù del loro potere decisionale sono in grado di condizionare e di cambiare il vivere comune di una società.
Infatti, questo fenomeno agisce anche come un catalizzatore di cambiamento, incentivando istituzioni e aziende a prendere posizione su temi etici. Tuttavia, come esplicita bene il significato del vocabolo ‘bifronte’ (bi – <<due>> e frons – <<fronte>>, ovvero due facce) esiste anche un volto negativo del concetto di cancel culture, spesso poco dibattuto, che può tradursi in giustizia sommaria in assenza di prove sufficienti e senza consentire la difesa di chi o cosa viene messo sotto accusa. Inoltre, il fenomeno della cancel culture può generare un effetto intimidatorio, scoraggiando la libertà di espressione e inducendo le persone all’autocensura, con la conseguenza di trasformare il dibattito in una polarizzazione ideologica anziché in un dialogo costruttivo. In sintesi, la cancel culture può rappresentare uno strumento potente che per promuovere una forma di giustizia sociale, rischia al contrario di diventare un’arma a doppio taglio se utilizzata in modo impulsivo e punitivo.
Questo comporta che una definizione nitida di cancel culture, senza presunzione di sorta, e un’esposizione definita delle potenziali conseguenze è necessaria. Come è già capitato in passato, consideriamo l’applicazione della cancel culture al contesto culturalmente inteso, cioè accademico, letterario, teatrale e cinematografico. La sua definizione può variare in relazione al contesto e all’uso, ma se teniamo a mente il significato circoscritto così com’è stato esposto, la cancel culture può essere definita in questi termini: la cancel culture è quella pratica sociale che coinvolge una porzione della collettività e che si prefigge di contestare pubblicamente, e spesso escludere o boicottare, opere o autori del mondo culturale (accademico, letterario, teatrale, cinematografico) per idee, contenuti o comportamenti ritenuti offensivi, discriminatori o inaccettabili secondo i valori a noi oggi contemporanei. La valutazione si fonda su giudizi rispetto a razzismo, sessismo, omofobia, colonialismo, ecc. Le conseguenze pubbliche possono includere censura, rimozione da festival, il ritiro di titoli da parte degli editori e la revoca di inviti accademici. Spesso, l’atto di cancellazione della cultura – questa la letterale traduzione in italiano – ha anche una funzione espressiva che rappresenta una presa di posizione sociale. Se richiamiamo l’attenzione ad alcuni esempi del passato, questa tendenza, mediaticamente assopita ma tutt’altro che svanita, si è concretizzata con la cancellazione o la riscrittura di alcuni classici della letteratura, come le edizioni “rivedute” di Roald Dahl o Agatha Christie in cui sono state modificate espressioni ritenute offensive; oppure con contestazioni accademiche che hanno visto il ritiro di inviti a filosofi o scrittori per opinioni considerate “non inclusive”; o con boicottaggi di film o di opere teatrali accusate di appropriazione culturale di stereotipi non inclusivi o di scarsa rappresentanza; o ancora con la rimozione di statue o di intitolazioni di strade o piazze a figure storiche collegate al colonialismo o alla schiavitù – un fenomeno questo più frequente nei paesi anglosassoni e non in Italia, dove la cancel culture, che non corrisponde esattamente alla sua controparte anglosassone, si manifesta in modalità consoni al suo contesto mediatico e culturale: più legata alla televisione generalista, al dibattito pubblico e alla polarizzazione politica.
Il termine cancel culture è tuttavia diventato talmente diffuso da essere spesso utilizzato in modo estensivo, includendo ambiti quali la politica, i social media, i casi penali o anche semplici critiche in rete. Tale uso allargato è spesso polemico e viene impiegato per accusare una forma di “censura sociale”, anche quando non concerne realmente la cultura o l’arte.
Tuttavia, si dovrebbe tenere a mente della dovuta distinzione tra il concetto di ‘critica’ e quello di ‘cancellazione’, poiché spesso il termine cancel culture viene usato per delegittimare anche critiche legittime. La critica consiste nel valutare, anche severamente, un’idea, un’opera o una persona, mediante una modalità equilibrata e strutturata formata da saggi, articoli, recensioni sostenuti da argomentazioni, con il fine di promuovere un dibattito, mettere in discussione e proporre alternative alle critiche messe in luce, con il presupposto di un dialogo al cui interno sono ammessi il dissenso e la pluralità di visioni, che possono arricchire il discorso pubblico e stimolare forme di autocritica. Ad esempio, uno studioso può analizzare un’opera di Pasolini mostrando come, in certi scritti, emergano visioni differenti rispetto alla figura femminile, proponendo letture alternative o contestualizzando il contesto storico sociale in cui l’opera dev’essere giustamente inserita e considerata.
Diversa è l’azione propria del concetto di cancel culture, che corrisponde al tentativo attivo di escludere o rimuovere una persona o un’opera dal contesto socio-culturale, interrompendo la diffusione di un’opera e la legittimità o la carriera di un autore – morto o vivente che sia – attraverso boicottaggi, campagne per costringerne il ritiro dell’opera dalla dimensione pubblica o al ritiro della persona coinvolta, con un apparato di disinviti dagli eventi e rimozione da cataloghi; naturalmente, questo meccanismo della damnatio memoriae, nel caso in cui il diretto interessato non fosse più in vita, non permetterebbe al soggetto preso di mira di rispondere alle accuse, negandogli dunque la possibilità di esprimere il proprio contrappunto o la possibilità di “redenzione”, obbligando qualcun altro a prenderne le difese. La cancellazione può manifestarsi quando un editore ritira un libro dal mercato in risposta alle polemiche che hanno preso come bersaglio quell’opera, o quando in occasione di un festival, gli organizzatori dell’evento decidono per la censura di un film, impedendone la proiezione perché un gruppo protesta contro alcuni aspetti emergenti o caratterizzanti la pellicola, e questo senza lasciare un margine di spazio per una discussione critica o storica.
Una reazione virulenta che non verrebbe affatto risparmiata né tantomeno ridotta nei confronti di chi invece è tutt’ora in vita come si è già scritto, con il risultato, nonché il rischio, di serrare il dialogo e alimentare la polarizzazione del dibattito, con la messa in opera di un corollario vittimismi ritualizzati da parte degli accusatori, cosicché da tentare un’autocelebrazione dell’accusa.
Dunque, è facile scadere nella confusione tra i due piani, e chi riceve una pubblica critica può percepirla come un tentativo di cancellazione; oppure, chi critica può arrivare ad invocare la cancel culture in base al personale desiderio di rivalsa o di astio per ottenere una rimozione forzata.
Riccardo Giovannetti
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