La guerra sul groppone del Medio Oriente – Per il senso d’orgoglio, di rivincita, di “resistenza” che l’azione ideata da Yahya Sinwar avrebbe dovuto ispirare il famoso attacco del 7 ottobre, nei palestinesi e nei loro alleati, che sarebbero scesi insieme in guerra contro il comune nemico, attaccandolo da tutti i fronti.
E in effetti l’enormità dell’attacco di Hamas ha oscurato il fatto che nella regione il conflitto era già latente da tempo. Gli attori in campo si stavano muovendo come i due lati di una faglia tellurica, che scorrono in direzioni opposte e sono soltanto in attesa del tremendo e fragoroso punto di rottura.
Nella martoriata West Bank i coloni israeliani – con i loro insediamenti ormai trasformati da avamposti, a villaggi, a città – erano già all’attacco, appoggiati dall’esercito, tanto che sia il 2022 che il 2023 erano stati gli anni con più vittime dalla seconda Intifada (2000-2005).
Palestinesi abbandonati
I dirigenti dell’Autorità Nazionale Palestinese avevano già lasciato i palestinesi senza rappresentanza (non si vota dal 2006), e i loro due partiti, Hamas e Fatah, coinvolti in una spirale di violenze crescenti per l’egemonia. Hezbollah e Israele erano già impegnate in continue schermaglie per cui decine di migliaia di persone avevano dovuto lasciare le proprie case nel nord d’Israele.
L’alleanza tra Benjamin Netanyahu e la destra religiosa aveva già portato al potere un fronte politico-culturale suprematista e propenso all’uso della forza, che trae forza e legittimità dalla negazione assoluta dell’altro, tanto da favorire, di fatto, Hamas come “interlocutore” palestinese (perché estremista, dunque ideale), e allo stesso tempo promuovere apertamente, come soluzione alla questione dei “due popoli tra il fiume e il mare”, l’annessione delle terre e l’oblio dei palestinesi come soggetto politico.
E l’Iran era già stato identificato come nemico esistenziale dal governo Netanyahu, in consonanza con le scelte degli Stati Uniti dall’arrivo di Donald Trump alla presidenza: rottura degli accordi con Teheran siglati sotto Obama nel 2015 insieme all’Europa e alle Nazioni Unite, e ritorno delle sanzioni, oltre al riconoscimento di Gerusalemme capitale.
Trump annunciava, già nel 2018, che avrebbe fatto cadere il regime iraniano, come ha ripetuto Netanyahu in questi ultimi giorni. Una posizione parzialmente moderata durante il mandato di Joe Biden, senza però esercitare un’efficace pressione su Israele né proporre una qualsivoglia soluzione diplomatica regionale.
Terroristi
Già l’Unione Europea aveva inserito Hamas (2003, con una controversia legale chiusa nel 2017) e Hezbollah (2020) nella lista delle organizzazioni terroriste, negandone dunque il carattere di interlocutore politico. E infine, già molti Paesi arabi della regione stavano ratificando gli Accordi di Abramo con Israele, con l’obiettivo dichiarato di isolare l’Iran.
In estate, la posizione di Israele sembrava ormai davvero insostenibile. Persino dentro il Paese in molti erano tornati a manifestare contro Netanyahu, riflettendo la possibilità di una nuova maggioranza, tanto da spingere l’ex ministro della Difesa Benny Ganz ad abbandonare il gabinetto di guerra. Ma il governo israeliano, grazie a una manovra militare, politica e mediatica, è incredibilmente riuscito a ribaltare la situazione, cambiando al tempo stesso il quadro politico interno e quello regionale.
Nessuno, anche in questo caso, ha potuto rispondere ai bombardamenti su Beirut e su Damasco; nessuno ha potuto impedire a Israele di colpire persino a Teheran, dov’è stato fatto esplodere l’appartamento in cui era ospitato un alto dirigente di Hamas come Ismail Haniyeh.
La “mitica” Hezbollah, da cui tanti si aspettavano l’apertura del famoso “fronte Nord”, è restata quasi ferma, per farsi decapitare quando è convenuto. Persino gli Houthi hanno fatto più danni di lei. E il fronte Nord l’ha aperto Netanyahu.
Superiorità militare
Capitali di Stati sovrani sono state colpite senza alcuna reazione, evidenziando la superiorità militare assoluta di Israele, almeno in campo convenzionale.
Lo Stato ebraico ha mostrato di essere circondato da entità inconsistenti – come Libano e Siria – o da territori usati quasi come “riserve” – Gaza e West Bank – dove in pratica fa ciò che vuole. Dove il Mossad decide le vite e le morti. Dove il diritto internazionale non esiste e nessuno può mettere bocca, nemmeno da Washington.
Così Netanyahu è riuscito a portare il focus del conflitto lontano dalla sua sanguinosa e fallimentare vendetta su Gaza (Hamas è ancora lì e gli ostaggi non sono tornati): ora, dice, parliamo della lotta tra il bene e il male. Il bene lo rappresenta Israele, il male l’Iran: “stiamo lavorando per voi”.
Il privilegio di cui gode Israele al momento, ossia quello di stabilire una lista di “nemici” da colpire a piacimento, però, non può razionalmente costituire una solida base politica, diplomatica o esistenziale.
L’ asse del bene
Ci fu l’invasione dell’Afghanistan, per rovesciare quel “regime del male” che difendeva i terroristi. Una narrativa tristemente simile a quella usata oggi per l’Iran. Vent’anni dopo, a Kabul comandano i Talebani e gli americani sono dovuti scappare, in una caotica fuga: eppure dopo un anno di guerra il trionfo sembrava certo.
Invadiamo anche l’Iraq, si disse: Afghanistan e Iraq, un Paese a Est e uno a Ovest dell’Iran – vera e propria ossessione del Dipartimento di Stato USA. Senza ovviamente rimpiangere il sanguinario despota Saddam Hussein, da quell’invasione (era un trionfo, dopo un anno di guerra) scaturirono l’ISIS e una serie di macchie indelebili per gli Stati Uniti, da Guantanamo ad Abu Ghraib. Chi c’è oggi al potere a Baghdad?
Un governo teoricamente federale che è una specie di dependance dell’Iran: di certo le centomila vittime civili di quella guerra non aiutarono la popolarità dell’”asse del bene”.
La lente deformata della convenienza immediata e del nazionalismo religioso impedisce adesso di vedere lo sviluppo evidente di dinamiche simili. Un’ultima forma di supremazia sta accecando Israele, quella dell’irresponsabilità delle sue azioni. L’esibito e tracotante disprezzo per le organizzazioni internazionali – nel suo ultimo discorso Netanyahu ha chiamato l’ONU “palude antisemita”, eppure lo Stato ebraico è nato proprio grazie alla garanzia delle Nazioni Unite.
La banalità dell’odio
Quello per i Paesi vicini, di cui si bombardano le capitali, e si invadono i territori, e si uccidono i capi e i generali con il telecomando, e si programma il rovesciamento dei governi. Quello per i palestinesi – sui quali tutto è permesso, spesso nel nome della Bibbia. Una politica del genere provoca quantità enormi di risentimento e odio, è quasi banale ricordarlo. E non di certo solo fuori da Israele: sappiamo bene come le velenose e maligne conseguenze delle guerre non risparmino affatto i “vincitori”.
In sintesi, quella sopra descritta è la posizione dell’analista politico Riccardo Pennisi, che scrive su ISPI, Affari internazionali, Limes, Il Mattino e Aspenia, ove si può trovare il suo articolo completo del 9 ottobre 2024.
Tenendo presente, non solo il taglio di questa equilibrata descrizione, ma anche che il numero 3/2024 di Aspenia (Rivista dell’Aspen Institute Italia, che fa capo al Prof. Giulio Tremonti) titola: “L’Europa più sola”: l’Unione dello scontento, la difesa con meno America, cosa non funziona nell’economia e contiene articoli molto interessanti, affatto mainstream, ci poniamo qualche interrogativo su un think thank di cui non abbiamo mai avuto alcuna affinità ideale.
Matteo Castagna
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