Milano, 21 maggio 2025 – Un brivido gelido ha percorso le sale del potere e le redazioni dei giornali, culminato nel pianto greco (o dovremmo dire, coccodrillesco?) del Sole 24 Ore, che titola con drammaticità: “L’inverno demografico colpisce il 30% delle imprese. A rischio il passaggio generazionale”. Ah, l’orrore! Le aziende, cuore pulsante della nostra economia, si ritrovano senza eredi, senza quella linfa vitale fatta di giovani schiene curve e cervelli freschi da spremere. Sembra quasi che la notizia li abbia colti di sorpresa, come se la neve d’agosto fosse un evento inaspettato.
Il presidente Istat, Francesco Maria Chelli, alla Camera dei Deputati, ha dipinto un quadro a tinte fosche: l’Italia, un gerontocomio a cielo aperto, con un quarto della popolazione che ha superato i 65 anni e quasi 5 milioni di ultraottantenni. Le nascite? Un misero 370mila nel 2024, con un tasso di fecondità da deserto del Sahara: 1,18 figli per donna. Un vero e proprio “inverno demografico”, e chi avrebbe mai potuto immaginarlo?
Ma fermiamoci un attimo e godiamoci la scena. Confindustria, la politica e le varie lobby che da anni sbandierano l’individualismo come virtù suprema, che spingono per un modello di società liquida dove l’unico legame stabile è quello con il proprio smartphone, oggi si stracciano le vesti. Sono gli stessi che hanno trasformato gli individui in edonisti impenitenti, perfetti consumatori ma pessimi riproduttori. Ricordiamo i gloriosi anni in cui l’indipendenza economica della donna era quasi un peccato, mentre oggi è una necessità per sopravvivere. Eppure, guai a suggerire che una famiglia numerosa possa essere un valore, anzi! Meglio essere “gattare” orgogliose della propria libertà o “gay” felici e contenti, che affrontare le fatiche della procreazione e dell’educazione.
L’Istat ci informa che le famiglie si rimpiccioliscono, aumentano i single (che meraviglia, tutto il divano per sé!), le unioni libere e le famiglie monogenitore. La genitorialità è “posticipata”, eufemismo per “chi se ne frega, c’è la PlayStation”. E le difficoltà strutturali di accesso all’autonomia economica dei giovani? Ma dai, saranno mica un problema! In fondo, basta un monopattino elettrico e un abbonamento a Netflix per essere felici, no? Il reddito medio da lavoro inferiore al 2004 è solo un dettaglio, compensato dal fatto che le famiglie sono più piccole e quindi “diluiscono” la povertà. Geniale! Un po’ come dire: “non abbiamo cibo per tutti, ma se mangiate meno, sembrerà di averne di più”.
E il “capitale umano”? Negli ultimi dieci anni abbiamo perso quasi centomila laureati tra i 25 e i 34 anni. Peccato! Erano i nostri cervelli, i nostri futuri innovatori, quelli che avrebbero dovuto trainare l’economia. Ma forse l’Italia è troppo “vecchia” anche per loro, o semplicemente non offre prospettive che vadano oltre il posto fisso da precario.
Il presidente Chelli si consola dicendo che tra l’inizio degli anni Novanta e il 2023, la quota di laureati tra i 25-34enni è salita dal 7 a oltre il 30 per cento. Bene! Abbiamo più laureati. Peccato che molti di loro siano in fila all’ambasciata di qualche paese estero per cercare fortuna. Ma non temete, la “crescita dell’occupazione femminile” ha compensato la riduzione dei redditi individuali a livello familiare. Tradotto: la donna lavora il doppio per guadagnare la metà, e così si tira avanti. Un capolavoro di pragmatismo economico, un po’ meno di equità sociale.
Insomma, il rapporto Istat è il solito specchio impietoso di una società che ha seminato individualismo e ora raccoglie solitudine. E le imprese? Beh, signori di Confindustria, forse è il momento di chiedervi cosa avete fatto per incentivare la stabilità familiare, per creare un ambiente dove avere figli non sia un lusso per pochi eroi, ma una scelta possibile e desiderabile. O forse il problema è che, in un mondo di egoisti, nessuno vuole più sacrificarsi per il bene comune, nemmeno per il futuro della propria impresa. E allora, buona fortuna a tutti, perché l’inverno demografico, a quanto pare, è appena iniziato.
E la coperta è sempre più corta.
Alfredo Durantini
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