Il secolo scorso ha visto l’umanità trasformarsi profondamente. In nome del progresso si è abbandonata ogni idea di limite, di gerarchia, di decoro. La civiltà dei costumi, pilastro invisibile ma essenziale dell’ordine sociale, è andata dissolvendosi. L’individuo ha perso il senso del dovere, dell’appartenenza e del sacrificio, sostituiti da un diritto illimitato di esprimere sé stesso in ogni forma, purché “libera”. Questo smottamento morale non è un semplice fenomeno culturale: è il vero prodromo della fine della politica come arte del governo e della costruzione comune.
Agli inizi del Novecento, anche in contesti complessi, l’individuo era parte di un tutto.
La società si reggeva su strutture forti –famiglia, scuola, autorità – che, al di là delle differenze ideologiche, promuovevano un comportamento fondato su decoro, rispetto, obbedienza e misura. Non si discuteva l’autorità, ma si cercava di meritarla. Il cittadino non era ancora divorato dall’illusione di essere sovrano, bensì consapevole del proprio posto nella comunità e delle responsabilità che ne derivavano.
Il secondo dopoguerra segnò un passaggio delicato: mentre si ricostruiva materialmente il Paese, si gettavano i semi di una nuova visione dell’uomo, sempre più centrata sull’individuo e sempre meno sulla comunità. Ma permanevano ancora forme di educazione, pudore, rigore. L’ordine era visto come valore, e la forma era sostanza: un modo di stare al mondo, di parlare, di vestire, di comportarsi.
Negli ultimi decenni del Novecento, la corrosione del tessuto civile accelerò. L’individuo cominciò a percepirsi come misura di tutte le cose. Il costume fu travolto da una cultura permissiva che, in nome della libertà, negava ogni limite e ogni autorità. In questa fase prende corpo una nuova religione secolare: la democrazia come dogma.
L’opinione di ciascuno, a prescindere da cultura, merito, preparazione, diventa sacra e inviolabile. Il “popolo” – entità indefinita e manipolabile – assurge a divinità, e l’atto elettorale si trasforma nel nuovo sacramento civile, sufficiente a garantire legittimità a qualunque decisione.
Oggi viviamo immersi in una democrazia che non unisce, ma divide. Il culto dell’opinione personale frammenta la comunità, esalta il conflitto sterile, marginalizza il senso di realtà e la competenza. Ogni decisione si riduce a una conta numerica, dove il peso di un’idea saggia equivale a quello di una sciocchezza gridata. Non esiste più autorità, solo consenso.
La politica è diventata intrattenimento, e il cittadino un cliente da sedurre con slogan e promesse.
La dimensione del comando – intesa come capacità di dirigere, ordinare, educare – è ormai vista con sospetto, se non con disprezzo.
Quando scompare la misura nei costumi, decade anche la possibilità di fare politica in senso nobile. L’assenza di ritegno, di forma, di rispetto per l’altro rende impossibile ogni progettualità condivisa.
Non si discute più, si grida. Non si ascolta, si reagisce. La politica, priva di sostanza e profondità, diventa una recita sempre più vuota, affidata a personaggi che inseguono la popolarità anziché la responsabilità.
Il degrado dei costumi non è un dettaglio secondario: è l’anticamera del disfacimento sociale e politico. Senza gerarchia nei valori, senza decoro nei comportamenti, senza limite nella libertà, non resta che il disordine.
È urgente riscoprire l’autorità, il silenzio, la misura. Rieducare al rispetto prima ancora che al diritto. E soprattutto, liberarsi dalla superstizione democratica che pretende di risolvere tutto attraverso l’opinione indistinta del “popolo”.
Perché quando tutto è opinione, nulla è verità.
E quando nulla è vero, tutto diventa possibile – anche il peggio.
Gianluca Mingardi
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