C’è un mare, dall’altra parte dell’Adriatico, dove l’acqua non ha soltanto il colore del sale e del cielo.
È un mare che sa di silenzio, memoria, pietra e sangue. Un mare che conosce i nomi che l’Italia ha smesso di pronunciare.
Tra quei nomi c’è Zara. Zara – o meglio Jadera, per i romani; Diadora, per i bizantini – era una città italiana in terra slava. Capitale storica della Dalmazia, figlia della Serenissima, parlava italiano nelle sue calli, tra i suoi campielli, sotto le chiese romaniche che portavano i segni di Venezia.
Eppure Zara, come molte città italiane dell’Adriatico orientale, è stata dimenticata, forse perché la sua fine fu troppo dolorosa per essere ricordata. Dopo la caduta dell’Italia fascista, la città divenne bersaglio di una vendetta pianificata.

I bombardamenti alleati – “alleati”, sì – colpirono Zara come si colpisce un nemico da distruggere. Eppure Zara non era un centro militare. Non c’erano fabbriche d’armi, né grandi basi tedesche. C’erano case, chiese, scuole. C’era la vita.
Dal 2 novembre 1943 al 31 ottobre 1944 furono sganciate 520 tonnellate di bombe. Morirono in duemila. La città fu distrutta al 90%.
Non solo le foibe il mare di Zara
I pochi italiani rimasti, attoniti, assistettero al rogo dell’anima zaratina. Dopo l’ultimo bombardamento, arrivarono i partigiani di Tito. E iniziarono i processi. Processi sommari, a volte nemmeno quelli. Bastava un cognome italiano, una denuncia anonima, o anche solo un sospetto.
E allora non servivano le foibe: a Zara c’era il mare. Nicolò Luxardo e sua moglie Bianca vennero portati via con una barca, oltre gli scogli. Ufficialmente, per un “interrogatorio”. Erano stati assolti da un tribunale partigiano pochi giorni prima. Eppure finirono in fondo al mare, annegati con la brutalità che cancella i nomi e le storie. I loro corpi riapparvero qualche giorno dopo, trasportati dalla corrente sull’Isola Lunga.
La morte come esproprio
Un prete li trovò. Li seppellì in segreto. Il fratello di Nicolò, Piero, svanì nel nulla. Di lui, più nulla. Ma la storia non finisce con la morte. Un anno dopo, Nicolò Luxardo fu processato di nuovo. Da morto. Condannato in contumacia. E tutti i suoi beni, inclusa la storica distilleria di maraschino – il celebre Sangue Morlacco – vennero confiscati. Era la morte come esproprio. L’esecuzione come furto. Pietro Tìcina, farmacista, fu gettato in mare con la moglie, la figlia, il genero, un fratello e una nipotina di sei anni.
Aveva una pietra legata al collo. Mentre veniva spinto giù, si aggrappò al carnefice e lo trascinò con sé. Non morì da solo.
La sua storia arrivò persino sulle pagine illustrate della Domenica del Corriere, come un sussurro nella coscienza nazionale. Simone Vlahovich, invece, riuscì a salvarsi. Era la Vigilia di Natale del 1944. Venne caricato su una barca con altri sessantaquattro prigionieri. Tutti legati, tutti con una pietra.
Uno a uno, gettati nel mezzo del canale. Ma la pietra di Simone scivolò via dalla corda. Nuotò sott’acqua, riemerse più in là. Sopravvisse per raccontare. Non fu un caso isolato. Famiglie intere vennero annientate. I fratelli Calmetta furono costretti a scavarsi la fossa. A uno, prima dell’impiccagione, schiacciarono il cranio.
A Zara non c’era una guerra: c’era un piano.
E mentre le sentenze si affiggevano sui ruderi anneriti, e le biblioteche bruciavano in Piazza dei Signori, l’intellettuale croato Vladimir Nazor, futuro eroe della Jugoslavia comunista, recitava in comizio: “Spazzeremo via le pietre della torre nemica… Al posto di Zara sorgerà Zadar”.
Così fu. Zara scomparve. Zadar nacque. E nessuna lapide, nessun museo, nessuna memoria ufficiale in Croazia ricorda oggi quegli annegati, quei fucilati, quegli italiani scomparsi. Solo il mare li conserva.
Quel mare grigio d’inverno, che bagna le sponde dell’Isola di Selve, di Ugliano, dell’Isola Lunga. Quel mare che sa ancora i loro nomi.
Quel mare che, ogni tanto, sussurra la verità a chi ha ancora voglia di ascoltare.
Valerio Arenare
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