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Home Società

“Cittadine e cittadini” e altri tic linguistici

Redazione di Redazione
23/09/2024
in Società
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“Cittadine e cittadini” e altri tic linguistici

E’ un’ovvia banalità affermare che i cambiamenti linguistici sono uno dei segnali più importanti dei cambiamenti nella società, nelle mentalità collettive, nelle idee condivise. Ma sono anche un indicatore dell’educazione sociale (non osiamo chiamarlo livello di civiltà) e spesso anche dei valori e dei disvalori dominanti.

Egemonia culturale

Ogni epoca, ovviamente anche quella attuale, è caratterizzata da uno specifico linguaggio. Non ci riferiamo qui solo a quella neo-lingua imposta dall’invasiva, feroce politically correctness con le sue appendici wokiste e della cancel culture che impongono parole-trappola atte a falsificare la realtà e cambiare il sentire comune e i valori tradizionali; parole come patriarcato, maschilismo, sessismo, trans-omofobia, femminicidio, migrante, xenofobia, gay, specismo e così via.

Queste sono parole di solito imposte dall’altro, attraverso la feroce egemonia culturale della sinistra dominante nei media e nelle altre agenzie “datrici di senso”: scuola, università, fiction televisive, narrativa e così via.

A fianco di queste parole, introdotte intenzionalmente per scopi intellettualmente funesti, si accompagnano spesso modi di dire, espressioni dalla rapida fortuna d’uso, manie linguistiche, tic verbali che dilagano nel colloquiar comune e sono comunque “segnalatori”, a volte più palesi e decifrabili, altre volte meno, dello stato dell’arte valoriale e civile della società.

L’eredità del ’68

Un’eredità linguistica del ’68, ad esempio, fu il dilagare dell’intercalare “cioè”, diffuso a piene mani nel linguaggio giovanile e contestatario e poi trasmessosi all’intera comunità dei parlanti, soprattutto a sinistra. Qualcuno lo attribuì a una sorta di “ansia da spiegazione” che affliggeva il mondo della gauche extraparlamentare e no, il cui linguaggio spesso s’involtolava in concetti criptici e fumosi, che andavano continuamente rispiegati, riformulati, ripresi, corretti, riproposti in una litania concettuale necessariamente costellata dai “cioè”.

Comunque una conseguenza della rovina sessantottina della scuola, causa principale di una perdita di capacità comunicativa e di chiarezza concettuale a tutti i livelli sociali, di drammatica inabilità a una consecutio logica, di patologico balbettio del pensiero, privato del sostegno di una sua sintassi. Certo la situazione non è oggi migliorata, anzi, con i vari passaggi generazionali, ci siamo sempre più linguisticamente impoveriti.

Dai tempi lontani del ’68 nuovi modi di dire alla moda, nuovi tic lessicali si sono susseguiti nei decenni, per poi declinare.

Ricordiamo, ad esempio, l’intercalare “voglio dire”, una variante intellettuale, da talk show, del più sbracato, precedente e giovanilistico “cioè”, ma in ogni caso riconducibile alla vuotaggine parolaia della sinistra e della sua triste, verbosa anti-retorica del “dialogo”, del “apriamo un dibbbattito”.

Dal “mi consenta” al “tu” 

Curioso poi il caso del “mi consenta”, tipico incipit dialettico di Silvio Berlusconi che sfondò sì nel parlar comune, ma spesso con intenti ironici se non di dileggio. Pure era un significativo segno di identità sociale e di classe, una rivendicazione di appartenenza al ceto borghese – o forse più propriamente piccolo borghese – che esibiva come tratto distintivo una buona educazione un po’ retrò, forse un po’ leziosa (“i miei omaggi alla signora” “lasci fare, non mancherò”) ma comunque indicativo di un sentire sociale volto alla civiltà nei rapporti umani, forse ipocrita, ma che affermava l’urbanità del viver comune, oggi sostituito da una fognaria, incivile volgarità imposta dai decostruzionisti del wokismo globale, dal progressismo pervertente, dal trionfo del brutto, del rozzo, dell’informe, dello sciatto, dell’osceno, dell’egualitario, dell’ “inclusivo”, del tribale.

E’ il trionfo dell’uso del “tu” a tutti i livelli, che piace tanto alla sinistra perché “popolare e “inclusivo”, in realtà segno di assenza di educazione prima ancora che di maleducazione.

Luoghi comuni linguistici

La produzione di “luoghi comuni linguistici” non conosce soste. Nuove parole, nuove espressioni, spesso imposte dai Signori del Discorso, nuove manie e nuovi tic linguistici si sono affermati negli ultimi tempi, anche grazie all’incrementata rapidità di trasmissione dovuta anche ai social.

Vale la pena commentarne qualcuno.

Le parole trappola

Iniziamo con “Sostenibile”, “sostenibilità”, con le varianti quali “eco-sostenibile”, “eco-sostenibilità”. E’ un evergreen che citiamo per la sua capacità di restare sulla scena per anni, imposto dall’eco-catastrofismo falsificatore.

Infatti, più che una mania linguistica, è una di quelle che abbiamo definito “parole-trappola”, dal significato impreciso, indeterminato, ambiguo.

Non è una parola neutra, ma evocativa e ideologica. E’ un termine imposto dalle élite: avete mai sentito questi termini nei discorsi della gente comune?

La parola “sostenibile” è una presenza costante, massiva, fastidiosissima, molestatrice, stucchevole nella pubblicità, buona per ogni prodotto o servizio, persino per le banche, per le crociere, oltre che per auto, detersivi, connessioni.

Chi scrive vorrebbe far sapere ai markettari delle agenzie e delle aziende che da tempo ha deciso di non acquistare prodotti o servizi che esibiscono questo termine o similari e ha, con molto gusto, scoperto di non essere il solo a reagire così al sopruso dell’imposizione di questo mistificante termine.

“In armonia con la Natura”.

Dolciastra espressione della più bieca retorica ambientalista e decivilizzatrice. Compare nei documentari naturalistici, nelle romanticherie arcadiche delle trasmissioni su viaggi e ambiente, nelle bucoliche narrative di ricchi cittadini annoiati che “riscoprono la campagna” e, potendoselo permettere, si dedicano all’orto biologico, all’apicultura, a un gardening molto british.

Tuttavia, se hanno bisogno di un bravo dentista tecnologicamente attrezzato, si riprecipitano rapidamente nell’orribile città.

“Torniamo a vivere in armonia con la Natura” e allora qualcuno sragiona dicendo che a Milano “servirebbe una foresta”. Questa la priorità.

Non l’immigrazione, non la conseguente criminalità, non la difficoltà di mobilità urbana, l’assenza di parcheggi.

E allora si propone di trasformare gli scali ferroviari da dismettere in foreste urbane, ignorando la grave crisi abitativa e i prezzi delle case che necessiterebbero investimenti immobiliari da destinare al ceto medio.

“Torniamo a vivere in armonia con la Natura”.

Andatelo a raccontare ai coltivatori e agli allevatori danneggiati dalle predazioni e dalle rovine causate dal ritorno di lupi, orsi e cinghiali che generano l’infantile, o senile, entusiasmo delle signore bene del WWF che frignano contro “i pregiudizi” di chi vorrebbe ricacciare i lupi nelle oscure foreste delle fiabe.

Andatelo a raccontare a chi, in alcune vallate trentine, non osa più andare a funghi, a raccogliere legna, o semplicemente passeggiare per paura di essere attaccato da orsi che non sono di peluche, come pensano gli eco-beoti animalisti, ma vivi e aggressivi.

Andatelo a raccontare agli albergatori di quelle stesse zone che hanno visto un calo del turismo e fughe di villeggianti verso altre valli dove gli orsi non ci sono.

Andatelo a raccontare ai vignaioli che hanno subito l’attacco distruttore di vigneti, con danni per decine e decine di migliaia di euri, da parte di eco-terroristi dell’Animal liberation front che accusavano quei produttori di vino di essere familiari del presidente della Provincia di Trento, che sta facendo il possibile, su pressante richiesta delle popolazioni locali, per liberare le belle vallate trentine dalla piaga ursina.

Quando finirà lo stucchevole, mieloso, mistificante tormentone di una presunta vita “in armonia con la Natura” da cui i nostri trisnonni hanno impiegato secoli per emanciparsi e conquistare l’acqua in casa, il pane bianco, la liberazione dalla pellagra e dalle carestie e tutti gli altri segni di un benessere oggi dileggiato dai cantori eco-neo-arcadici degli alberi degli zoccoli, colpevolmente dimentichi che la Natura non è sempre amorevole madre ma spesso anche crudele matrigna?

I tormentoni

“Postura”, al posto del tradizionale “posizione”. Esempio: “la postura dell’Unione Europea sul tema delle armi all’Ucraina…”. Non sembra che ci siano motivi ideologici per la scelta di un termine che richiama più l’ortopedia e l’ergonomia che la politica, ma che sia invece riconducibile al solito fenomeno dell’imitazione. “Postura” suona più up to date, più alla moda.

Questa parola la usano i giornalisti Rai, quasi tutti di sinistra, e quindi vanno imitati. E’ un esempio pratico, anche se banale, terra-terra, dell’egemonia culturale.

“Wow” (la pronuncia è un canino “uaou”). Dilaga nella pubblicità: inflazionato e fastidiosissimo “l’effetto wow”. Come tutti sanno, indica un sorpreso, ammirato stupore.

Nasce prima nel giovanilistico linguaggio trogloditico o nella pubblicità? Non lo sappiamo.

Quel che è certo che proviene dal cretinismo fumettaro e dal suo lessico infantil-adolescenziale semi-onomatopeico (“slash”, “bang”, “slurp”, “grrr”).

Altro che impoverimento linguistico: se non fossimo fermamente convinti della totale inconsistenza scientifica delle teorie evoluzionistiche diremmo che il suo uso indica una regressione mentale a un livello appena appena post-scimmiesco.

Speriamo che torni di moda “urca”, meno becero e più nazional-popolare.

Nel dubbio…

“Assolutamente sì”. In un’epoca di apparente esaltazione filosofica del dubbio, di negazione di ogni realtà e verità e di trionfo del relativismo, sia pure sotto forma, come diceva qualcuno, di sua dittatura, l’abuso di questa esagerata espressione affermativa in ogni risposta di intervistati semicolti sembrerebbe dimostrare una opposta traiettoria (altro termine alla moda invece di “direzione”) del sentire comune.

Se non fosse eccessivo rispetto all’espressione in esame, verrebbe invece di scomodare Donoso Cortes: “Vedo giungere il tempo delle negazioni assolute e delle affermazioni sovrane”.

L’orrenda espressione sottolinea l’assoluto dogmatismo sovietico imposto dal dominio culturale liberal-progressista.

“Credi tu nel riscaldamento climatico?” “Assolutamente sì”.

Certo è che chi risponde premettendo questo fermo e virile (aggettivo quest’ultimo sconsigliato per maschilismo e non inclusività in un documento ufficiale sul bon ton formale dell’UE) incipit vuole dare prova di fermezza di convinzioni, decisioni indefettibili, saldezza di valori.

Non vi sembra che, se non fosse così inflazionato e spesso usato da mezze calzette, l’“assolutamente sì” avrebbe un che di vagamente e piacevolmente mussoliniano: non ricorda “l’ora delle decisioni irrevocabili”?

Cittadine e cittadini

“Cittadine e cittadini”. E’ il più recente, ma certamente non l’ultimo, esempio della serie delle trionfanti follie femministe: il rifiuto della regola linguistica del cosiddetto maschile sovraesteso: l’uso del genere maschile per includere anche quello femminile; e questo sia al singolare (il consumatore, il funzionario, il presidente), sia al plurale (i ciclisti, i medici, i consiglieri d’amministrazione).

Sta dilagando, soprattutto grazie agli opinion leader di sinistra che hanno il monopolio mediatico del discorso, un lezioso, appesantito, involuto uso della ripetizione nei due generi, femminile e maschile, premettendo, come ulteriore sottolineatura ideologica, il femminile al maschile: “cittadine e cittadini” appunto.

Un esempio: nell’indignazione a comando per la presunta censura al comizio antifascista di Antonio Scurati sulla pubblica Rai si è distinto Nicola Lagioia – che quando era direttore del Salone del libro di Torino impedì la partecipazione, già pagata, di case editrice di destra e che non fece nulla quando facinorosi “progressisti” impedirono con la violenza la conferenza del ministro Roccella – che così si è espresso nella neo-lingua “inclusiva”:

“invito le scrittrici e gli scrittori, le intellettuali e gli intellettuali di questo paese, le lavoratrici e i lavoratori del mondo editoriale a farsi sentire”.

I giornalisti

Altro esempio: in un comunicato dell’Usigrai, il sindacato dei giornalisti di sinistra che, a riprova dell’immarcescibile egemonia culturale, spadroneggia nella televisione pubblica imponendo palinsesti impestati di antifascismo e di sinistrismo, abbiamo letto un orribile “Giornaliste e giornalisti”.

Che tristezza poi sentire un padre domenicano (un domenicano!) in una messa rivolgersi ai fedeli con uno sciagurato “Sorelle e fratelli”, dimostrazione di una chiesa conciliare divenuta consapevole complice delle nequizie della moderna correttezza politica.

Purtroppo, solo uno degli innumerevoli segnali del degrado estetico (ma il Bello è consustanziale al Vero e al Buono) di questa chiesa, rappresentativo dei molteplici, emblematici effetti del tradimento conciliare e postconciliare della Tradizione, della Dottrina e persino della metafisica di sempre.

Le Università non sono immuni

Ancora: in un documento della Conferenza dei Rettori delle Università italiane, presieduto dal rettore della Bicocca di Milano, Giovanna Iannantuoni (colei che per russofobia vietò all’esperto di letteratura russa Paolo Nori di tenere una serie di lezioni su Dostoevskij) sulle proteste antisraeliane negli atenei, così esordisce:

“La mobilitazione di tante e tanti, a cominciare dalle studentesse e dagli studenti, deve farci riflettere”.

Tuttavia la beceraggine ideologica femminista contro la realtà, il buon senso e la lingua italiana ha raggiunto il suo vertice all’Università di Trento che ha imposto con un regolamento interno (ma è legittimo? È legale?) la provocazione, nei documenti ufficiali, di un genere femminile per tutti: niente più, rettore, segretario, professore, candidato, collaboratore ma, rettrice, segretaria, professoressa, candidata, collaboratrice.

Per tutti, a prescindere del sesso di chi viene indicato. A comunicare tale decisione è stato la stessa “rettrice” – anche se è un maschio – Flavio Deflorian. Ci consola il fatto che il termine “imbecilli” va bene per tutti i destinatari: femminili, maschili o misti.

A questo punto ci permettiamo di offrire un consiglio al Presidente Giorgia Meloni: se vuole completare la sua ben rivendicata, manifesta ed esibita “transizione antifascista” e convincere i suoi avversari di essersi completamente convertita alla vulgataresistenziale trionfante dovrebbe ridenominare il suo partito Sorelle e Fratelli d’Italia.

Antonio de Felip

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