Evgenij Pasternak era il figlio maggiore di Boris, il grande scrittore de “Il Dottor Zivago”. Letterato e ricercatore, morì a Mosca nel 2012, all’età di 89 anni.
Scrisse:” chiesi a mio padre perché aveva rifiutato di firmare l’Appello di Stoccolma per la pace…Mi rispose che la lotta per la pace per mezzo di appelli era un’assurdità e una sciocchezza…Disse che anche senza appelli, tutti sanno che la pace è buona e la guerra è orribile. Firmare l’appello non ha senso. Si deve lavorare per rafforzare nella gente l’amore per la vita e la convinzione che vivere vale la pena. Quando la vita non vale niente, neanche una lira, la gente non ha più paura di perderla. In quel caso l’uomo è pronto a tutto, anche ad andare in guerra”.
Le analogie con il presente nichilista, quello che ha ucciso Dio e non trova nella dimensione verticale del soprannaturale il fine della propria esistenza, sono tremendamente attuali.
Se esiste qualcuno che ritiene, per qualsiasi tossico motivo, che la vita di un altro popolo non conti, o sia assimilabile a quella degli animali, occorre prendere coscienza del fatto che esiste un problema, che la nostra civiltà classico-cristiana non può comprendere. La negazione dell’esistenza di un’altra persona perché diversa, sul piano antropologico, religioso, politico, etnico, è un mostruoso abominio che la storia ha già condannato, ma che ciclicamente si ripete, in tutta la sua feroce drammaticità.
Non sono ontologicamente possibili né il confronto né, tantomeno, un accordo serio per una convivenza tranquilla, neppure con confini e rapporti occasionali, perché sarà in quelle poche circostanze che si troverà il pretesto per riprendere il conflitto con il fine ultimo la dissoluzione dell’altro, ritenuto un subumano.
I comunisti ritengono, da sempre, i loro avversari come nemici da abbattere. La parte opposta, che è sempre e comunque “fascista”, viene disprezzata al punto da giustificare la violenza, la tortura, l’assassinio, perché “il fascismo non è un’idea” e “l’unico fascista buono è quello morto”. Abominevole. Eppure, lo leggiamo e ascoltiamo spesso sui media dagli stessi che sono favorevoli all’aborto e all’eutanasia, ma sono sempre umanitari e accoglienti con gli immigrati.
L’extracomunitario è divenuto così “sacro”, che vi sono pronunciamenti politici e giudiziari che lo assolvono dallo stupro, perché non si potrebbe sapere cosa pensi di quell’atto criminale, nella sua cultura. Esiste un diritto naturale, inscritto in ogni essere umano, ad ogni latitudine della Terra, che fa capire all’individuo che violentare una donna è un male, forse tra i peggiori.
Siamo giunti alla distopia, ovvero all’assurdo, che vengono da un’ideologia degenerata e intrinsecamente perversa.
Nessuno storico sostiene più l’indipendenza del partito comunista italiano dall’Unione Sovietica. Ma quelli di area rossa sottolineano l’importanza di Togliatti e del PCI nel contributo alla democratizzazione del Paese, dopo il 1945. Costoro hanno sentito il bisogno di conciliare l’immagine del PCI come partito democratico con il suo carattere staliniano.
Per spiegare il paradosso dell’”inscindibile convivenza tra stalinismo e democrazia” Giuseppe Carlo Marino ricorre a una forte dose di provvidenzialismo, fino ad usare la categoria del miracolo: secondo l’autore, si potrebbe trovare “qualcosa di miracoloso nell’esperienza del partito togliattiano”, che è riuscito a collegare una “vocazione rivoluzionario-bolscevica” con una “concreta attività politica finalizzata sostanzialmente agli obiettivi di un progetto riformistico”. Chiaramente queste affermazioni, non trovando concretezza, sono solo autoreferenziali e misticheggianti giustificazioni di un PCI fortemente stalinista.
“Chiesa” e “caserma” ebbe a definire il PCI il grande Indro Montanelli. Angelo Panebianco lo definì un partito massimalista di mobilitazione di massa e di opposizione permanente. L’organizzazione sociopolitica che tentò di imporsi nel dopoguerra, fu stalinista. Mentre la storiografia ha completato di fare i conti col fascismo, non l’ha ancora attuato con lo stalinismo del PCI.
Silvio Pons e Robert Service hanno espresso un giudizio condivisibile sul comunismo: “il suo universalismo non ha lasciato alcuna tangibile eredità culturale e istituzionale […]. La sua memoria è inseparabile da alcune delle peggiori tragedie e dei più infami crimini contro l’umanità compiuti nella storia contemporanea”.
Lo storico Andrea Guiso, cresciuto professionalmente dopo il crollo del sistema sovietico, ha posto recentemente delle domande molto interessanti: “Quale contributo specifico ha portato il PCI all’idea di democrazia, quando “L’Unità”, una pagina sì e l’altra pure, dipingeva la democrazia americana come il regno del male assoluto e, di contro, il socialismo alla Stalin come il paradiso dei lavoratori?
E al paventato benessere del socialismo, ci cedevano davvero o faceva parte di una serie di menzogne per tenere assieme la base? E se…quel partito si dichiarava pronto a scendere sul terreno della guerra civile lo faceva perché obbligato da un non ben definito “vincolo esterno” o perché era persuaso che in determinate circostanze era non solo ammissibile, ma persino necessario, il ricorso alla funzione ostetricia della violenza, pur di realizzare l’uomo nuovo nella storia?
Il PCI avrebbe voluto trasformare l’Italia in un Paese sovietico, nell’intreccio costante con lo stalinismo, che produsse anche morti italiani, cui quali, Togliatti a Mosca tacque e disse che “era meglio dimenticare”. Va ricordato anche che gli archivi hanno recentemente dimostrato i costanti finanziamenti che giungevano dall’URSS di Stalin a Botteghe Oscure.
L’operazione di propaganda per cui Stalin era il paladino della libertà e della democrazia fu una bufala di cui non si ricorda resipiscenza. Tra torture, miseria e tormenti, il baffone mandava gli oppositori, i preti, i diversi, nei gulag.
Nonostante il cambio dei nomi, la mentalità stalinista è rimasta in molti esponenti che si proclamano democratici. La giustificazione della violenza contro il “fascismo immaginario” è una creatura orribile che vorrebbe prevalere sui giovani liceali e universitari, ed è un’eredità del “pensiero unico”, tipico del modello stalinista. La demonizzazione e soprattutto la delegittimazione di tutti coloro non siano funzionali al programma globalista, sono le figlie funeste della metodologia stalinista, che indottrina, decide cosa è bene e cosa e male, sulla base degli interessi della via progressista.
Il nemico va appeso a testa in giù, o deve finire come Charlie Kirk. La narrativa quotidiana sta dimostrando che questo è il sentimento di una base ancora profondamente stalinista. Oggi non ci sono più i gulag, quindi sarebbe legittimo sparare ai leader non comunisti o sovranisti, o seriamente cattolici per poi gioire nel massacrarne i cadaveri, come accadde a Piazzale Loreto.
Non mi piace definire questo rigurgito di liquame del passato come “fascismo rosso”. Preferisco rimanere ancorato alla realtà. Questi stalinisti sono ancora dei poveri comunisti, intolleranti e violenti che meritano l’oblio o l’insindacabile repressione quando commettono reati.
di Matteo Castagna
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