C’è un passaggio simbolico, quasi rivelatore, nel titolo scelto dal Secolo d’Italia: “Maranza di tutto il mondo unitevi”.
È il rovesciamento parodico di un vecchio slogan marxista, ma anche la fotografia di un mondo – quello della sinistra antagonista – che sembra non saper esistere senza un nemico e senza una piazza da occupare. Secondo quanto ricostruisce il giornale, la tregua in Medio Oriente non ha portato alla fine delle tensioni interne.
Al contrario, diverse sigle del fronte pro-palestinese, sostenute da movimenti e centri sociali di area estrema, annunciano l’intenzione di proseguire la mobilitazione anche dopo gli accordi di pace, con nuove manifestazioni e iniziative di piazza. Non si parla più di protesta umanitaria, ma di una “lotta permanente” che punta a restare visibile, anche a costo di occupare spazi pubblici e creare disagi.
Violenza la linfa per la sinistra
È la conferma che, per una certa sinistra, la piazza non è uno strumento: è un fine. La tensione, la rabbia, la contrapposizione diventano la linfa di un’identità politica che non sa più cosa proporre, ma solo contro chi opporsi.
Dietro questa persistente agitazione si intravede un mutamento profondo: la nascita di un nuovo tipo di militanza urbana, rabbiosa, senza radici e senza progetto. Quella dei cosiddetti maranza: giovani delle periferie, italiani e stranieri, accomunati non da una visione del mondo, ma da un senso di esclusione e da una ricerca di riconoscimento attraverso la ribellione. Non c’è ideologia, ma impulso.
Non c’è comunità, ma tribù, branco. E la sinistra, invece di affrontare il problema educativo e sociale, tende a nobilitare questa rabbia, a descriverla come segno di “resistenza” o “ribellione giovanile”. È il vecchio vizio di una parte del progressismo occidentale: romanticizzare il disordine quando viene da chi si dichiara “dalla parte giusta”.
Ma questa estetica della rabbia, questa glorificazione della marginalità, nasconde un fallimento più profondo: la perdita del popolo reale. La sinistra ha smesso da tempo di rappresentare le classi lavoratrici e produttive, quelle che chiedono stabilità, sicurezza, riconoscimento.
Ha bisogno di nuovi soggetti simbolici: i ribelli, i disoccupati militanti, i “perdenti” eretti a eroi. Così ogni protesta diventa “movimento”, ogni corteo una “lotta di liberazione”, ogni trasgressione un atto di “resistenza civile”.
Il vuoto antropologico
Da militante di destra radicale, non posso non vedere in tutto questo la rappresentazione di un vuoto antropologico. Dove non ci sono più valori, si esalta la ribellione. Dove mancala comunità, si invoca la piazza. Dove si è perduta la patria, si cerca un’identità sostitutiva nelle bandiere di altri.
Eppure, il disagio giovanile e sociale che la sinistra pretende di interpretare è reale. Solo che la risposta non può essere l’agitazione permanente. Serve ordine, appartenenza, disciplina, ma anche prospettiva.
Serve restituire dignità a chi lavora, sicurezza a chi vive nelle periferie, rispetto a chi sente ancora di appartenere a una nazione. Il compito della destra – se vuole davvero rappresentare il popolo – non è inseguire il linguaggio della protesta, ma offrire una via di riscatto.
Una visione che unisca e non divida, che valorizzi l’identità italiana e la coesione sociale, che trasformi la rabbia in responsabilità, la rivolta in rinascita.
Perché finché la sinistra continuerà a vivere di conflitto e di piazze, sarà nostro dovere proporre una comunità vera: quella fatta di lavoro, onore, giustizia e patria.
Tutto ciò che la sinistra ha smarrito, o forse mai avuto, nella sua ossessione per l’eterna protesta.
Gianluca Mingardi
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