Proponiamo, in occasione dell’anniversario della nascita di Evita Perón, la prefazione del compianto Gianni Correggiari a “LA RAZÓN DE MI VIDA” il Diario di Evita Duarte Perón.
Il Luna Park è il principale impianto coperto di Buenos Aires, sede di spettacoli, concerti e avvenimenti sportivi. É lì che il 22 gennaio del 1944, in occasione di un festival di beneficenza organizzato per procurare fondi da devolvere ai terremotati della provincia di San Juan, fanno la loro conoscenza Juan Domingo Perón ed Eva Duarte.
Lui, in quel momento, quarantottenne colonnello dell’esercito è presidente della Secretaría de Trabajo y Previsión – Segreteria del lavoro e della previdenza – che aveva sostituito il Departamento Nacional del Trabajo da lui iniziato a dirigere qualche mese dopo il colpo di Stato del 4 giugno 1943 che aveva portato alla deposizione del presidente Ramón Castillo, poco prima della fine del suo mandato. All’interno degli ambienti militari si è da tempo formato un nucleo coperto denominato G.O.U. (Grupo de Oficiales Unidos o, anche, Grupo de Organización y Unificación), costituito in prevalenza da colonnelli, tra cui lo stesso Perón, schierati contro l’allineamento agli Stati Uniti nella guerra in corso. Questi ufficiali, in nome della sovranità argentina, intendono mantenere la neutralità del paese ed esprimono in maggioranza aperte simpatie per l’Asse, per i movimenti fascisti europei e per le loro riforme sociali. Il colpo di mano che ha portato alla nomina presidenziale, sia pur per pochi giorni, del generale Arturo Rawson è scaturito da un equivoco, ossia dalla notizia, poi rivelatasi infondata, che il generale Pedro Pablo Ramirez, appoggiato dal G.O.U., è stato rilevato dal suo incarico di ministro della Guerra dal presidente Castillo; ciò che ha messo in moto la reazione poi sfociata nel pronunciamento. Pochi giorni dopo, però, Rawson è deposto, sia per alcuni dissidi sugli incarichi ministeriali, sia per il suo annuncio di voler rompere le relazioni diplomatiche con le nazioni dell’Asse; ad assumere la carica suprema è così il generale Ramirez.
Lei, Eva Duarte Ibarguren, nata il 7 maggio 1919, proviene da Los Toldos, un paesino nella gigantesca provincia di Buenos Aires e, ancora minorenne, dopo un’infanzia trascorsa in mezzo ai sacrifici e alla mancanza di una vera figura paterna (il padre naturale, che pur la riconobbe dopo qualche anno, era sposato con un’altra donna e la madre prestava servizio proprio nella sua famiglia), si è trasferita nella capitale per buttarsi nel mondo dello spettacolo. Quando incontra Perón al Luna Park, Eva gode già di una discreta notorietà, dato che recita in commedie teatrali trasmesse per radio in tutto il paese e assai seguite dal pubblico. La loro relazione sentimentale e la convivenza iniziano poco tempo dopo; celebrano il matrimonio civile a Junín, il 22 ottobre del 1945, e quello religioso il 10 dicembre successivo a La Plata.
Perón ricorda: “Vidi in Eva una donna eccezionale, un’autentica «pasionaria» animata da una volontà e da una fede che si poteva paragonare a quella dei primi credenti. Eva doveva fare qualcosa di più che aiutare la gente di San Juan; doveva lavorare per i diseredati argentini. Decisi quindi che Eva Duarte prendesse posto nel mio ministero e abbandonasse le sue attività teatrali”.
Dal momento del loro primo incontro al giorno delle nozze, in Argentina è però accaduto di tutto.
Perón è diventato l’uomo forte all’interno del G.O.U. e, dalla sua posizione di presidente del Departamento Nacional del Trabajo, divenuto poi Secretaría de Trabajo y Previsión alla fine del 1943, riorganizza i sindacati, che fino a quel momento erano liberi ma contavano pochi iscritti ed erano controllati da socialisti e comunisti; approfittando dell’aumento dell’occupazione operaia – conseguenza della crescente industrializzazione del paese e della progressiva urbanizzazione delle masse – riunisce i quattro sindacati esistenti in uno solo, crea un tribunale per le controversie lavorative, organizza il sistema pensionistico e favorisce gli accordi collettivi di lavoro. L’affiliazione obbligatoria del lavoratore all’organizzazione sindacale corrispondente al tipo di attività prestata va di pari passo col progressivo allontanamento della dirigenza socialcomunista dai sindacati, via via rilevata da nuovi dirigenti di idee antimarxiste e nazionaliste, graditi a Perón il quale, in tal modo, si ritroverà ben presto una forte base popolare di consenso.
Proprio pochi giorni dopo l’incontro al Luna Park, “il mio giorno meraviglioso”, così lo definirà Evita, Perón convoca i membri più importanti del G.O.U. nel suo ufficio. È il 25 gennaio del 1944. Qui viene presa una decisione importante a cui neppure lui rimane estraneo: quella di rompere le relazioni diplomatiche coi paesi dell’Asse. Alla considerazione circa l’esito ormai fatale della guerra, si aggiungono timori di un possibile ricatto statunitense: quello di svelare le prove della partecipazione del governo argentino al golpe in Bolivia del dicembre precedente a favore di Gualberto Villarroel e di denunciare il rilascio di credenziali da parte del ministero degli Esteri ad un agente tedesco allo scopo di comprare armi in Europa; per non farsi mancare niente, la potenza nordamericana ha inoltre piazzato una corrazzata nella rada di Montevideo, a poche ore di navigazione dal porto di Buenos Aires.
Il relativo decreto, che viene giustificato dalla scoperta di una rete spionistica tedesca nel paese, provoca lo scioglimento di fatto del G.O.U. da cui escono, indignati per la decisione adottata, alcuni ufficiali. Agli Stati Uniti però non basta ancora. Esigono anche la dichiarazione di guerra ; non certo per il supporto effettivo che l’Argentina potrebbe fornire, quanto per dimostrare la compattezza degli stati americani dietro la propria guida.
La delusione si estende all’esercito e Perón ne approfitta in maniera spregiudicata, esigendo l’allontanamento dei firmatari materiali del decreto, il colonnello Alberto Gilbert, ministro dell’Interno e il colonnello Enrique Gonzales, capo della segreteria della presidenza. Di lì a poco segue anche la rinuncia del generale Ramirez, sostituito dal vicepresidente Edelmiro Julián Farrell il quale cede la sua carica di ministro della Guerra a Juan Domingo Perón. Ma, alla fine, la superpotenza riesce a strappare all’Argentina la dichiarazione di guerra contro l’asse, che viene emanata il 27 marzo del 1945, dopo la celebrazione della conferenza interamericana di Chapultepec, svoltasi a Città del Messico, diretta a creare una sorta di solidarietà panamericana, chiaramente sotto l’egida degli Stati Uniti.
Questi, terminata il conflitto, inviano a Buenos Aires il nuovo ambasciatore, Spruille Braden, col compito di premere per lo svolgimento rapido di elezioni e il cambio del governo. Nel mirino del focoso diplomatico finisce anche Perón, che ha assunto nel paese una dimensione politica rilevantissima e che ha il grave torto di essere ritenuto un “fascista”, nonostante le precedenti e pur forzate capitolazioni sulle relazioni con l’Asse. Il presidente Farrell promette le elezioni entro la fine dell’anno mentre i vertici della Marina scalpitano perché siano celebrate immediatamente; l’esercito, dal canto suo, non vuole abbandonare così in fretta il potere ma, al tempo stesso, teme l’influenza di Perón.
A fianco di Braden si schiera quasi tutto l’arco politico, dai comunisti ai conservatori, dai socialisti ai radicali, poi la stampa, le organizzazioni studentesche e culturali, poteri finanziari ed economici. L’occasione per scalzare Perón dal governo nasce da un piccolo scandalo, provocato da una nomina amministrativa asseritamente avvenuta dietro pressione di Eva Duarte. Le sue dimissioni non bastano però a placare le richieste del partito avverso che, grazie alle fortissime pressioni che può esercitare, ne ottiene l’arresto.
La risposta a questo provvedimento la danno centinaia di migliaia di argentini che con l’allontanamento dalla Secretaría de Trabajo di colui che aveva tutelato i loro diritti si sentono sguarniti. Una volta che la stampa, il 16 ottobre, diffonde la notizia della sua detenzione cominciano ad affluire colonne di persone da ogni parte della Gran Buenos Aires verso Plaza de Mayo, situata di fronte al palazzo presidenziale, la Casa Rosada; ogni spazio della piazza e delle strade laterali che vi confluiscono sono occupate da manifestanti che, in un numero di oltre trecentomila – alcune fonti parlano di cinquecentomila – protestano pacificamente chiedendo la liberazione di Perón. Il paese è paralizzato, i trasporti sono bloccati, i negozi chiusi. La pressione popolare ha la meglio: il presidente Farrell, non ostile al suo ex ministro, annuncia attraverso gli altoparlanti che il colonnello, nel frattempo scarcerato, parlerà alle undici della notte.
Il presidente e Perón , quest’ultimo fatto entrare da una porta laterale del palazzo, si affacciano al balcone. La piazza esplode in un boato e acclama Perón che improvvisa un discorso e alla fine invita i manifestanti a ritornare alle proprie case e, dopo la giornata di sciopero già proclamata per l’indomani, anche al lavoro.
Le elezioni del 24 febbraio 1946 sanciscono la sua vittoria. Nella coalizione “Union Democrática” si alleano liberali, radicali, socialisti, comunisti lanciando lo slogan “per la libertà, contro il fascismo”. Il governo di Farrell si è invece inclinato dalla parte di Perón il quale però non può contare su strutture politiche e propagandistiche. Lo appoggia un neonato partito laburista, un altro partito di recente costituzione, la Alianza Libertadora Nacionalista, una frangia dissidente dei radicali e vari dirigenti sindacali. Uno dei suoi slogan è “O Braden o Perón!”
Assume la carica il 4 giugno del 1946 e inizia la c.d. “era giustizialista” che durerà poco più di nove anni; nell’interregno successivo alle elezioni, il governo di Farrell ha già anticipato misure in linea con la direzione peronista: nazionalizzazione del Banco Central, emissione di buoni del tesoro per 250 milioni di pesos, creazione dell’Instituto Argentino de Promoción del Intercambio, diretto alla gestione del commercio con l’estero.
La situazione economica del paese è, dopo la guerra, assai favorevole; la fornitura di carne e grano agli alleati ha permesso alle casse dello Stato d’incamerare crediti, soprattutto nei riguardi della Gran Bretagna; Perón vuole venire incontro alle esigenze delle imprese nazionali che, dovendo necessariamente utilizzare per la distribuzione dei prodotti la rete ferroviaria, di proprietà di compagnie inglesi, vedono una rilevante fetta delle proprie entrate finire nelle tasche straniere. Sono così nazionalizzate le ferrovie, poi i servizi di tranvia e, inoltre, anche la compagnia del gas e quella telefonica – anch’esse in mano inglese. Gli verrà rimproverato di aver bruciato in poco tempo l’attivo della bilancia commerciale, espresso in valuta estera, per comprare impianti, installazioni e macchinari già vecchi e a rilevare monopoli già prossimi alla scadenza della concessione. Lui spiegherà che la necessità di utilizzare quei fondi derivava dalla prospettiva, rivelatasi poi esatta, di una imminente svalutazione delle divise, la qual cosa avrebbe sfavorito il successivo potere d’acquisto da parte argentina.
Il dinamismo peronista dà comunque uno slancio poderoso alla rinnovazione dello Stato e delle sue strutture. Sono così create la flotta mercantile, la linea aeronautica nazionale; è costruita una linea ferroviaria commerciale che attraversa la Patagonia per lo sfruttamento del carbone, è costruito un gasdotto, è inaugurato il nuovo aeroporto internazionale Pistarini, dal nome del ministro delle Opere Pubbliche; si erigono dighe e centrali elettriche, ospedali e quartieri popolari. Inizia la progettazione e la sperimentazione del Pulqui, un aereo a reazione, il cui prototipo sarà pilotato per la prima volta nel 1950. In quello stesso anno viene istituito L’Ente nazionale per l’energia atomica argentino, primo passo per la futura costruzione di centrali nucleari ad uso civile.
In campo sociale, va a perfezionarsi l’opera che Perón aveva iniziato al tempo della “Segretaría de Trabajo”; il sabato diviene non lavorativo, si istituisce la tredicesima e le banche concedono crediti ipotecari agevolati per l’acquisto della casa. In campo istituzionale il potente sindacato C.G.T. diventa parte integrante della struttura amministrativa, e dai suoi ranghi escono ministri, politici e diplomatici. Nel 1949 viene varata la nuova costituzione dove sono sanciti i diritti dei lavoratori, della famiglia e degli anziani e il principio che le fonti di energia, così come alcuni servizi pubblici, costituiscono “patrimonio inalienabile dello Stato nazionale”.
“Il governo federale incentiverà l’immigrazione europea” stabilisce la prima parte dell’articolo 17 della carta costituzionale. Perón pensa ad un’Argentina moderna ed avanzata, ad un progetto strategico col Brasile di Getulio Vargas (anche se la dirigenza di Itamaraty, il ministero degli Esteri brasiliano sulla cui strategia svolgono tradizionalmente un’importante influenza poteri politici, economici e finanziari del paese, non ne è per nulla entusiasta) e vuole includere nell’accordo anche il Cile, l’A-B-C; l’asse economico industriale Buenos Aires-San Paolo (due città a forte connotazione europea) rappresenta ai suoi occhi una sfida alla potenza nordamericana. Ma questa alleanza latina, cattolica, nazionalista e regionale, potenzialmente capace di trainare con sé gli altri paesi continentali non piace agli Stati Uniti, tanto più che Perón sta allacciando rapporti preferenziali con Francisco Franco e Antonio Oliveira de Salazar, mentre alla politica atlantica Spagna e Portogallo servono eccome. La “Tercera Posición” si annuncia non tanto come un dato ideologico ma soprattutto come sfida geopolitica.
Il viaggio di Eva Perón in Europa, nel 1947, è quello dell’ambasciatrice di una nazione che vuole appunto diventare protagonista della politica mondiale, ma è soprattutto lei a essere lanciata nella scena internazionale; si reca in Spagna, poi in Italia, incontra papa Pio XII, infine raggiunge Portogallo, Francia e Svizzera. Tutti i riflettori sono puntati su di lei.
Evita però ha già conquistato l’amore delle masse argentine, diventa la “abanderada de los humildes” la portabandiera degli umili e con la sua Fondazione inizia l’opera sociale di assistenza alle famiglie più povere. La Fondazione, nel corso degli anni, consente a più di tredicimila donne di trovare un’occupazione. Grazie ai contributi sindacali e governativi, inaugura le case degli anziani e dei bambini abbandonati e orfani, scuole, ambulatori, case popolari e fonda Ciudad Evita, ubicata nelle vicinanze dalla capitale.
La sua popolarità e l’amore degli Argentini la spingono, nel 1951, verso la candidatura alla vicepresidenza per le elezioni di novembre; nel congresso justicialista di quell’anno Eva è proclamata “Jefa espiritual de la Nación”. La fórmula “Perón-Perón” sembra inevitabile ma non tutto il peronismo è d’accordo. Il 22 agosto 1951 si convoca il c.d. Cabildo Abierto del Justicialismo, una sorta di assemblea popolare a cui accorrono più di due milioni di persone, organizzata dalla C.G.T. lungo la enorme Avenida 9 de julio, nel centro della capitale; in quell’occasione si svolge un intenso dialogo fra Eva, già affaticata dalla malattia, e la massa dei manifestanti che insistono con veemenza affinché lei accetti la candidatura a quella carica: “Perón – Eva Perón, la fórmula de la Patria“, si legge nei cartelli e negli striscioni. Non lo fa, non può farlo, chiede un termine per pensarci e pochi giorni dopo, con un annuncio radiofonico, comunica la sua “decisione irrevocabile e definitiva e di rinunciare all’onore che i lavoratori e il popolo volevano attribuirmi“.
A dissuaderla non c’è dubbio che ci sia anche Perón. Era nota l’ostilità che nelle alte sfere, soprattutto negli ambienti militari, incontrava la figura di Evita, da essi considerata una fanatica, una plebea, un’arruffapopoli; non possono accettare l’idea che, potenzialmente, lei possa diventare comandante in capo dell’esercito. Il General, da un lato, vede favorevolmente una candidatura che gli permetterebbe d’essere affiancato da una persona di sua completa fiducia ma, dall’altro, non può certo non tener conto che la candidatura della moglie acuirebbe il crescente malumore che già cova in certi settori delle Forze Armate. Pensa quindi che la rinuncia di Eva alla vicepresidenza possa frenare le tensioni, ma non è così perché già nel settembre successivo scoppia una rivolta militare, pur prontamente domata.
Perón viene rieletto, con la stessa fórmula di cinque anni prima, “Perón-Quijano”. Assume formalmente la sua seconda presidenza il 4 giugno del 1952. Evita muore poco dopo, il 26 luglio, alle ore 8 e 25 della sera, stroncata da un tumore all’utero. Per lungo tempo le emittenti radiofoniche, alle 8 e 25 interromperanno i programmi per annunciare la ricorrenza della “ora in cui Eva Perón passò all’immortalità”. Il lutto nel paese è enorme, lacerante. Si formano chilometri di code di persone che vanno a porgere l’ultimo saluto a Evita, custodita nelle sala del Congresso.
Il peronismo già da tempo si è appesantito, non ha più la freschezza originaria; la crisi economica, gli attriti all’interno del mondo militare, un indurimento verso gli avversari politici che porta anche alla chiusura di giornali esacerbando gli animi, hanno ringalluzzito i gruppi oppositori e, probabilmente, anche la morte di Evita contribuisce a rafforzarne la determinazione.
Si produce infine un violento strappo con la Chiesa, fino a quel momento sempre in ottimi rapporti col governo. Il deterioramento dei rapporti fra autorità civile e religiosa si manifesta verso la fine del 1954 quando, dopo una serie di accuse rivolte da Perón contro alcuni vescovi, accusati di sabotare il governo, si elimina l’insegnamento religioso scolastico, introdotto dal governo del presidente Ramirez nel 1943, si autorizza l’esercizio della prostituzione e si vara la legge sul divorzio. Il culmine della crisi è raggiunto il 12 giugno quando alcuni gruppi peronisti attaccano la cattedrale di Buenos Aires come rappresaglia all’incendio di una bandiera nazionale avvenuto il giorno precedente durante la processione del Corpus Christi, che non era stata autorizzata. I due vescovi promotori della manifestazione – a cui, si disse, parteciparono anche comunisti, anarchici e militari ostili al peronismo, per darne un contenuto politico – sono espulsi dal paese.
La situazione precipita. Il 16 giugno, lo stesso giorno in cui la Santa Sede scomunica Perón, aerei della Marina attaccano la Casa Rosada, sganciando numerose bombe che falliscono il bersaglio ma provocano la morte di oltre trecento civili e un numero ancora maggiore di feriti. Contemporaneamente, fanti della Marina attaccano il ministero della Guerra, dove si è rifugiato Perón ma vengono respinti dalle truppe lealiste. Gruppi peronisti chiedono armi per difendere il presidente che, però gliele nega. Alla fine, la fanteria navale, trinceratasi nel Ministero della Marina si arrende, mentre i piloti autori della strage atterrano in Uruguay.
La fine del peronismo è però solo rimandata di pochi mesi; ciò che la Marina e una piccola parte dell’aviazione non erano riuscite a concretizzare, anche per l’astensione dell’esercito, viene compiuto per iniziativa di un generale in ritiro, Eduardo Lonardi che, da Cordoba, il 15 settembre inizia una nuova sollevazione che ben presto trova adesioni. La Marina blocca tutti i porti argentini. Le Forze Armate sono divise fra rivoltosi e lealisti ma all’intimazione di resa rivolta il 19 settembre dall’ammiraglio Rojas al governo, Perón offre la sua rinuncia, dichiarando che l’esercito può prendersi carico della situazione “per cercare la pacificazione degli argentini prima che sia troppo tardi”. Il giorno successivo, il generale Lonardi da Cordoba assume il governo provvisorio della Nazione, dichiarando quella città capitale provvisoria della Repubblica fino a quando, il giorno 23, entra nella Casa Rosada acclamato da una folla che si è radunata in Plaza de Mayo. Perón, rifugiato nell’ambasciata del Paraguay, riesce a raggiungere la sua capitale, Asunción, prima a bordo di una cannoniera e poi di un idrovolante.
Inizia così il suo lungo esilio.
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Il presente volume è la terza versione italiana dell’autobiografia di Eva Perón. La prima risale al 1953, dei Fratelli Bocca Editori.
La seconda è datata 1996, stampata dalle Edizioni Riunite, la casa editrice del defunto P.C.I., all’epoca già divenuto P.d.S. e coincise con l’uscita del film musicale interpretato da Madonna Ciccone, che impersonava Evita, e Antonio Banderas nel ruolo di un improbabile Ernesto Che Guevara, voce narrante delle vicende umane e politiche della moglie del General, che incontrerà – ballando con lei un tormentato valzer – in una allucinazione di cui la donna, nella trama del musical, è vittima. Lei però, morta nel 1952, non avrebbe potuto mai immaginare, neppure per sbaglio, la pur contemporanea esistenza di quel barbuto futuro guerrigliero di Rosario. Un’evidente forzatura insomma, quasi come mettere una clessidra al polso di un gladiatore in un kolossal. Ma è cinema, e ci può stare, soprattutto se la produzione è hollywoodiana e le esigenze della coerenza storica non costituiscono la prima preoccupazione di registi e di produttori , poiché ampiamente sopravanzate da quelle dello spettacolo. E l’idea di far incontrare, seppur in uno scenario d’immaginazione, la protagonista di sette anni di storia argentina trasformata, attraverso un musical, in un’icona internazionale e un protagonista di nove anni di storia cubana trasformato, da una martellante propaganda, in un’icona internazionale stampata su centinaia di migliaia di tee-shirt, poteva avere un suo perché nel mondo dello show-biz.
Quel che di vero c’è del musical sono però le parole della struggente canzone “Don’t cry for me Argentina” . “…The truth is I shall not leave you….”, la verità è che io non ti lascerò mai. E così è infatti.
La memoria di Evita è impressa nella pelle e nella carne dell’Argentina e degli Argentini. Due sue immagini stilizzate realizzate in acciaio campeggiano sulle facciate sud e nord di un gigantesco palazzo, l’attuale sede del Ministerio de Obras Públicas, che domina l’arteria principale di Buenos Aires, la Avenida 9 de Julio, una delle strade più larghe del mondo; quasi un simbolo per una nazione che coltivò l’ambizione di diventare una grande potenza ma che non è mai riuscita a liberarsi dai suoi peccati originali che la tengono inchiodata in mezzo al guado, fra il primo e il secondo mondo. Conflittualità interne mai risolte, classi politiche e imprenditoriali quasi sempre non all’altezza, incertezza giuridica, invadenza burocratica e, dal periodo della dittatura militare del 1976, un debito sempre in crescita unito a una corruzione endemica.
C’è un palazzo, in particolare, che si fonde con la memoria di Evita: la sede della Confederación General del Trabajo, il potente sindacato peronista, un edificio con evidenti tracce di stile razionalista, ristrutturato nel 1950 sotto la guida del famoso architetto argentino Jorge Sabaté, e donato da Evita al sindacato dei lavoratori. Lei, inconsapevolmente, scelse così anche il suo primo mausoleo. É lì che il suo cadavere, poi sottoposto a mummificazione, nove giorni dopo il suo funerale, fu accolto come una sacra reliquia. A volerlo fu proprio la C.G.T. che vincendo la concorrenza di altre forze peroniste ottenne quel privilegio: che Evita riposasse tra i lavoratori, ricambiando così il dono che pochi anni prima l’organizzazione sindacale aveva ricevuto dalla moglie di Perón. Era destino però che dopo una vita eccezionale e tormentata, fatta di lotte, di sogni, di vittorie e di delusioni, Evita non riuscisse a trovare pace neppure da morta.
La furia iconoclasta della c.d. revolución libertadora del 1955, che aveva provocato la distruzione di molti busti e statue, sue e del General, custodite in quell’edificio non lontano dallo storico quartiere di San Telmo, non risparmiò neppure la ricca biblioteca e l’archivio, che furono saccheggiati e spogliati di libri e documenti legati all’epoca e al pensiero justicialista. Era iniziata la lunga stagione della proscrizione del peronismo. Oggi l’edificio ospita mosaici, busti, quadri e opere recuperate altrove, che la raffigurano. E in un angolo del palazzo c’è ancora lei, Evita, i capelli sciolti e il suo volto giovane e sorridente, lo sguardo di una ragazza felice, disegnata su un ampio quadrato di mattonelle bianche, un’immagine del tutto diversa da quella che la ritrae in pose rigide ed espressioni composte nelle rappresentazioni ufficiali che compaiono in ogni stanza dell’edificio, dove invece il suo ruolo è quello della moglie di un capo di stato, Eva Duarte de Perón.
Il 22 novembre del 1955, poche settimane dopo il compimento del golpe anti-peronista, la sua salma fu trafugata da un gruppo di militari e nascosta. Si temeva che qualunque luogo l’avesse ospitata si sarebbe trasformato in un sacro focolaio di ribellione, mentre il peronismo veniva ufficialmente bandito in tutto il Paese. Dopo varie peripezie (furono anche temporaneamente sepolte, sotto falso nome, nel cimitero Maggiore di Milano) le spoglie mortali, ritornate in Argentina nel 1974, riposano ora nella cripta di famiglia nel cimitero della Recoleta, a Buenos Aires.
La loro riapparizione coincise, non a caso, con la fine della proscrizione del peronismo. Nel 1971 il presidente de facto, il generale Alejandro Augustin Lanusse, un anti-peronista di sempre, non appena nominato decise che era tempo di ritornare alla normalità; fissò per la data dell’ 11 marzo del 1973 le elezioni presidenziali e per la prima volta dopo diciotto anni stabilì le prime prudenti riaperture al peronismo; pochi giorni prima dell’annuncio era stata restituita a Perón, all’epoca ospite di Franco a Madrid, la salma della moglie.
Se i suoi resti mortali hanno, alla fine, trovato riposo la sua memoria invece, ed ancora per lunghi anni, è stata scaraventata in mezzo alle strade e alle piazze argentine. In mezzo al sangue e alla tragedia.
“Si Evita viviera, sería montonera” gridavano i Montoneros, dichiarandosi unici veri eredi e portatori del verbo peronista e proclamando Evita “cosa loro”. Se Evita vivesse sarebbe montonera, affermavano con sicurezza, mentre sparavano contro i vecchi peronisti rimasti fedeli al General per tutti i lunghi anni di proscrizione e repressione del movimento, di ogni sua espressione, di ogni sua immagine, dello stesso nome di Perón. Esattamente come cinquecento anni prima di Cristo quando, cacciata la stirpe dei Tarquini da Roma, fu proibita persino la pronuncia della parola “rex”, per il timore che potesse evocare i fantasmi di quel recente passato.
Ma la moglie del General era già morta, non poteva smentirli ed erano loro a pretendere di parlare in suo nome; addestrati a Cuba vagheggiavano una “patria socialista” e la scelta di Evita quale propria paladina, quale proprio simbolo e ragione di lotta obbediva a ragioni propagandistiche; lei, a sua volta paladina della piccola gente, delle cabecitas negras, dei descamisados, dei lavoratori, amata da quel popolo che non si risparmiò giorni di fila sotto la pioggia per poter trasmettere l’ultimo saluto alle sue spoglie, era il loro grimaldello per sfruttare il fortissimo potere emotivo che ancora quel nome suscitava.
E, peggio ancora, pretendevano in una sorta d’interpretazione postuma, di separare il suo destino, la sua persona, le sue idee da quelle del vecchio General. Troppo conservatore, realista, pragmatico – ma sì, diciamolo, anche fascista! – per poter essere tirato per la giacchetta da questi “sbarbati”: così li chiamò, irridendoli, davanti ad una moltitudine di Argentini riuniti il primo di maggio nella omonima piazza che si spalanca davanti alla Casa Rosada. Era il 1974 e due mesi dopo Perón moriva, lasciando un vuoto incolmabile. Ma ebbe il tempo e la forza, quel giorno, di cacciare dalla piazza i Montoneros e le altre sigle fiancheggiatrici della “Tendencia”, che pensavano di essere più peronisti di lui e di trascinarlo nelle loro utopie.
Quegli “infiltrati che lavorano all’interno e che, con metodi vili, sono più pericolosi di quelli che lavorano all’esterno” – così, pure, li definì nel corso di quella giornata – lo volevano spingere verso posizioni rivoluzionarie, verso la “patria socialista” non capendo che il General era tornato per riappacificare la nazione e non per intraprendere avventure che gli Argentini non volevano; proprio per questo l’avevano rieletto: per riportare ordine e farla finita col terrorismo.
Evita era morta già da oltre vent’anni e non poteva smentirli direttamente. Ma quella separazione propagandistica e artificiosa tra lei e lui è sbugiardata nelle pagine di questo libro che è, innanzitutto, fin dal prologo, un atto d’amore e di gratitudine verso Juan Domingo Perón.: “… né la mia vita né il mio cuore mi appartengono e nulla di tutto ciò che io so o posseggo è mio. Tutto ciò che sono, tutto ciò che posseggo, tutto ciò che penso e tutto ciò che sento è di Perón”. Il suo uomo, il suo maestro ma, soprattutto, l’incarnazione dell’Argentina.
Qualcuno ha scritto che le sue invettive contro la oligarquía (le classi imprenditoriali e l’alta borghesia) e contro certi ambienti dello stesso peronismo l’avrebbero sicuramente allineata, vent’anni dopo, alle ragioni dei Montoneros contro la “destra” peronista. Ma “Si Evita viviera”, sarebbe stata sempre a fianco di Perón, con l’Argentina giustizialista e antimarxista e mai e poi mai, lei, avrebbe potuto schierarsi a fianco degli assassini di uno dei più fedeli amici e compaňeros del marito, José Rucci, segretario generale della CGT, ucciso il 25 settembre del 1973, pochi giorni dopo il trionfo alle elezioni della fórmula Perón-Perón: lui, il General, presidente e la terza moglie, María Isabela Martinez, vicepresidente. O, ugualmente, approvare o giustificare gli omicidi di altri dirigenti sindacali peronisti: José Alonso , ucciso il 7 agosto del 1970; Dirk Kloosterman ucciso il 22 maggio del 1973; Rogelio Coria, ucciso il 22 marzo del 1974; Juan Enrique Pelayes ucciso il 10 giugno del 1975; Adalberto Cesar Giménez, ucciso il 26 febbraio del 1976; Ignacio Desosi, ucciso il 25 ottobre del 1976, tutte vittime della ferocia montonera. Senza contare i molti altri militari, poliziotti, dirigenti d’azienda, avversari politici, vittime del piombo dei Montoneros, dell’ERP o di altre organizzazioni fiancheggiatrici.
Avrebbe potuto lei, fedele alla dottrina peronista (“non… soltanto peronista per la causa di Perón …‹ma› peronista a motivo della sua stessa persona”) tenacemente antimarxista e corporativa, contraria alla lotta di classe e propugnatrice di una loro pacifica ed equa collaborazione, abbracciare la causa di Mario Eduardo Firmenich, uno dei capi storici dei Montoneros, che nel settembre del 1973 sfidò Perón dicendogli che “il potere politico (della sua organizzazione) spunta dalla bocca di un fucile” ? O schierarsi dalla parte di colui che, alla morte del General e di ritorno dal suo viaggio a Mosca nel 1974, si dichiarò marxista-leninista?
L’indole, passionale, vulcanica a tratti anche virulenta, di Eva Duarte, la sua naturale e feroce indignazione contro le ingiustizie sociali, la sua vocazione sicuramente movimentista sono state abilmente gabellate come prova di un suo “montonerismo” ante litteram (come se l’indignazione o la rabbia non potessero trovare sfoghi diversi dalla lotta armata, dall’attentato, dall’assassinio; come se ne costituissero precedente necessario) per farle abbracciare post mortem le scelte politiche di una fetta del peronismo distaccatasi dal suo fondatore; scelte germinate in un contesto del tutto nuovo e differente rispetto a vent’anni prima, influenzato da pesantissimi fattori esterni – l’ingerenza cubana nella sovversione ispanoamericana, la guerra fredda – e da cui Perón e i suoi negli anni settanta, con senso di realismo politico, intesero prendere le distanze.
Negli scontri sanguinosi che opposero i Montoneros ai soldati e ai poliziotti, in quegli anni colpiti a centinaia da ripetuti attacchi a sorpresa o a tradimento, riecheggiano le parole di Pier Paolo Pasolini che nel 1968 così scrisse agli studenti: “Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi quelli delle televisioni) vi leccano (come credo ancora si dica nel linguaggio delle Università) il culo. Io no, amici. Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccoloborghesi, amici. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano…”.
Il copione si sarebbe ripetuto pochi anni dopo, dall’altra parte del mondo: da una parte i Montoneros (e non solo loro), in maggioranza provenienti da famiglie d’estrazione borghese (e non poche di media-alta borghesia), influenzati dalla “dottrina della liberazione”, dal cattolicesimo sociale e dal mito di Che Guevara e del castrismo; dall’altra i proletari o i campesinos in divisa che difendevano la patria contro il caos e la guerriglia. Da che parte sarebbe stata Evita?
Chi l’ha schierata e la schiera fra i nemici di Perón e della pacificazione argentina oltraggia la sua memoria ben più di coloro che oltraggiarono le sue spoglie.
Il tentativo di operare quella artificiosa separazione si scontra comunque nell’impossibilità d’intravedere un ruolo politico autonomo da quello di Perón con cui lei non osò mai entrare in competizione. Si era certamente ritagliata uno spazio, e anche importante, all’interno del potere ma le decisioni e le iniziative che assunse erano la naturale conseguenza del percorso peronista e, dunque, della volontà di Perón di cui lei fu il volto, il riflesso. Fu una sua costola, che lui modellò e promosse al rango di propria ambasciatrice presso il popolo argentino, di angelo custode delle sue masse disperate. “Un’ombra della sua presenza superiore” , così lei si definisce.
“Tutto il mio compito tra il popolo e il suo leader esige una condizione che ho dovuto applicare con una cura quasi infinita; questa condizione è di non impicciarmi nelle cose del governo”.
Il suo approccio alla “politica” è viscerale, sentimentale, emotivo, irrazionale; non è donna propensa alla mediazione: e lei che lo confessa ma di questa sua ammissione non ce ne sarebbe neppure bisogno perché quest’atteggiamento emerge con prepotenza da ogni pagina del libro. La chiave di lettura dei problemi che deve affrontare nel suo ruolo di presidentessa della Obra Social è la sua devozione verso Perón e il popolo argentino; e siccome anche Perón è per lei l’interprete più genuino e onesto del sentimento popolare, ecco che il cerchio si chiude e ogni diversa interpretazione del suo sentire intimo s’infrange contro l’ostinata realtà delle cose.
Il che non sta però a significare che il suo ruolo non abbia avuto effetti politici. Tutt’altro; se il mito del peronismo sopravvisse alla sua sconfitta del ’55 e tuttora alimenta speranze, passioni e nostalgie lo si deve soprattutto ad Evita più che al fondatore del movimento. Lei godeva sicuramente d’un ascendente politico su Perón e le sue parole spesso valevano più di quelle di ministri e deputati; ma era un ruolo esterno alla struttura formale del potere, irripetibile e che si fondava sulla stretta intimità che la legava al capo della nazione.
Evita va dunque compresa per quello che è stata, per i suoi trasporti di passione, per la sua rabbia, la sua dedizione alla causa, espresse con una prosa che a volte può apparire persino zuccherosa quando descrive la sua vita privata con Perón o quando di sofferma su certi spetti della sua intensa attività benefattrice. Va giudicata non per ciò che le interpretazioni postume le attribuiscono o per ciò che una certa agiografia peronista ha scritto di lei ma per quello che ha realizzato, per il suo ruolo concreto: l’aver dedicato la sua esistenza a curare le miserie del suo popolo, aver lenito lo strazio di tanti diseredati facendo rinascere in loro la speranza.
La sua statura non esce per nulla mortificata da questa apparente limitazione; anzi, è proprio questa sua “ingenuità”, questa mancanza di malizia politica – a cui si contrapponevano, comunque una volontà e una determinazione senza pari – che ben si coniugano col suo sentire a-politico (o forse pre-politico, fatto di istinto, di percezione ma non certo di cultura e di capacità di analisi), che giustificano (o sarebbe meglio dire: spiegano) alcune sue posizioni obbiettivamente non condivisibili: un manicheismo che la porta a dividere il mondo in “buoni” e “cattivi”, l’idea messianica che il “justicialismo” peronista possa essere una formula valida per tutta l’umanità, una concezione distorta dell’Europa che le fa scrivere, in una lettera indirizzata a Perón: “In Europa tutto appare storia, in Argentina noi vediamo tutto come se stesse per accadere. Gli europei, invece, non guardano più in avanti, bensì indietro.Mentre loro per esempio mi dicevano: <Osservi questa cattedrale del X° secolo> io pensavo alle case-scuola che inizierò non appena arrivo a Buenos Aires. Mentre loro mi mostravano un vecchio volume di storia, io pensavo che noi ora siamo all’inizio di un altro libro che inizia nella nostra patria… e col tuo nome”.
Purtroppo, noi lo sappiamo bene, è proprio la mancanza di senso storico, di riferimento alle nostre radici, il non apprezzare a sufficienza il nostro passato, ciò che sta uccidendo l’Europa. Ma questa incomprensione è, spesso, reciproca; anche noi Europei tendiamo ad interpretare le cose del mondo partendo dalle nostre visioni. E quella di parte americana, e non solo meridionale, è la visione che proviene da un continente che ha sì e no quattro secoli di vita conosciuta e dove si è transitati dal regno della violenza a quello di un tentativo di convivenza senza che siano stati metabolizzati i necessari passaggi intermedi; ciò che impedisce o frena un suo sviluppo equilibrato e fa, sovente, da ostacolo a noi e a loro per cogliere l’esatta portata dei rispettivi eventi.
Questo libro, quindi, oltre a fornire un importante spaccato di alcuni anni di storia argentina, visti con gli occhi e soprattutto col cuore di una testimone di prima fila, costituisce un discreto strumento interpretativo per tentare di cogliere alcuni aspetti di una società, dunque di una mentalità e a scrollarsi di dosso certezze ideologiche. Il peronismo fu figlio di un uomo, di una terra e di una storia, e ne assorbì tutte le caratteristiche, compresi i difetti, le manchevolezze, gli squilibri.
Evita ne fu il lato romantico, iperbolico. E, evidentemente, sempre dalla parte di Perón, come proclamano i versi di quel ritornello che i fedelissimi del General cantavano in risposta a chi ne voleva fare la sua icona simil-cheguevarista:
Evita sólo vive
en la revolución !
Evita es peronista
y está siempre con Perón !
Questo rozzo slogan, in fondo, dopo tante parole, coglie l’essenza della questione.
Gianni Correggiari
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