Dal 1948 a oggi, in questi Paesi si sono spese miliardi di parole per parlare di pace, dialogo, diritti.
Eppure, in parallelo, sono morte 60 milioni di persone.
Sessanta milioni.
Senza che si sia mai tracciato un confine mentale preciso: quello che separa la diversità dalla minaccia.
Essere diversi non dovrebbe essere un motivo per morire.
Non dovrebbe voler dire vivere nella paura, né sentirsi nel mirino di bombe diventate simbolo di potere più che di guerra.
Ci si siede a tavoli negoziali, con firme, strette di mano, dichiarazioni solenni.
Perché fermare una guerra vuol dire chiudere il rubinetto di uno dei business più redditizi del mondo: il mercato delle armi.
Un mercato lecito, illecito, ibrido, ma comunque nutrito. Più si combatte, più si guadagna.
Più si muore, più si produce.
Le guerre non nascono solo da odio. Nascono da bilanci. Da utili. Da profitti che sanno di carne bruciata e sangue secco.
Soldi che hanno l’odore della morte. Voluta.
Comandata.
La guerra è un investimento
Ogni bomba ha un costo.
Ma soprattutto un margine di profitto.
Nel 2024 la spesa militare globale ha superato i 2.400 miliardi di dollari. Un record.
Un trend in crescita da nove anni consecutivi.
Gli Stati Uniti restano al vertice: oltre 800 miliardi di dollari in un anno.
Seguono Cina, Russia, India, Arabia Saudita.
Ma anche l’Europa aumenta la propria corsa agli armamenti: Francia, Germania, Regno Unito tra i primi dieci.
L’Italia non è esclusa: nel 2024 ha autorizzato esportazioni militari per oltre 6,2 miliardi di euro, con Qatar, Egitto e Arabia Saudita tra i principali clienti.
Alcuni di questi Paesi sono coinvolti in conflitti attivi o accusati di violazioni dei diritti umani.
Non tutto avviene alla luce del sole.
Il mercato illegale di armi leggere – fucili, pistole, mitragliette – genera 2-3 miliardi di dollari l’anno, completamente fuori controllo, alimentando milizie, bande armate, guerre civili.
Nel frattempo, le stesse aziende che producono armi finanziano campagne politiche, influenzano voti in Parlamento, sponsorizzano think tank e media.
Lobby legalizzate, che trasformano il concetto di sicurezza in un pretesto economico.
Per ogni parola pronunciata nei palazzi della diplomazia,
esiste un contratto firmato per vendere armi.
Per ogni appello alla pace,
esiste una clausola che giustifica la guerra.
Non è solo geopolitica.
È profitto travestito da necessità.
E nessuno vuole davvero smettere.
Perché qualcuno, dal 1948, incassa sul sangue.
Think tank e arsenali: l’industria delle idee che alimenta la guerra.
Ogni guerra ha bisogno di armi, ma anche di parole.
E spesso sono prodotte dallo stesso sistema.
Ci sono le bombe e ci sono le narrazioni che le giustificano.
Ci sono le guerre sul campo e quelle negli uffici dei centri studi, dove si elaborano strategie, si legittimano aumenti di spesa militare e si definiscono “minacce” da neutralizzare.
Sono i think tank: laboratori di analisi apparentemente neutri ma spesso finanziati da aziende belliche, governi e fondazioni private con interessi diretti nei conflitti.
Il meccanismo è semplice:
si pubblicano studi su instabilità, difesa, nuove tecnologie militari
e si propongono soluzioni che implicano acquisto di armi, interventi armati, rafforzamento degli eserciti.
Il tutto mascherato da rigore accademico e da “esperti indipendenti”.
Ma i finanziatori sono spesso gli stessi che costruiscono i missili, i droni, le portaerei.
Tra i nomi più influenti:
• RAND Corporation e CSIS (USA)
• IISS (Londra)
• Fondation pour la Recherche Stratégique (Francia)
• In Italia, IAI – Istituto Affari Internazionali, con studi su cyberdifesa e tecnologie “dual use”, spesso in collaborazione con il Ministero della Difesa e l’industria militare nazionale
Il rischio è evidente:
si confonde l’analisi con la propaganda,
la ricerca con la lobbying,
la sicurezza collettiva con il profitto privato.
Si fabbricano parole per legittimare armi.
E si normalizza l’idea che la guerra sia inevitabile, perfino razionale.
Così, mentre si invoca la diplomazia nei consessi ufficiali,
i think tank continuano a produrre scenari in cui la soluzione militare è sempre tra le opzioni più plausibili.
E intanto le aziende ringraziano.
Perché le idee, come le armi, si vendono.
E spesso sono scritte con lo stesso inchiostro invisibile, che sa di polvere da sparo.
Ma la verità è che nessuno vuole davvero fermare le guerre.
Leonardo S.p.A., leader italiano attivo nei settori aerospazio, difesa e sicurezza:
www.leonardo.com
La guerra è parte della Storia. La Storia la fanno gli uomini. L’Europa ha avuto ottant’anni di pace ( il periodo più lungo della storia) perché i popoli europei (dopo inutili stragi) hanno scelto e sono cresciuti nel buon diritto, nella democrazia, nelle liberalità economiche e politiche, finché un omuncolo eurasiatico ha mostrato il deretano a tutto questo e il vero volto dei popoli servi ( che stanno quasi tutti a est, se ne impipano del diritto internazionale, dirimono le controversie a suon di missili e pretendono di decidere quali nazioni devono esistere e quali scomparire). Di questi tempi, volere la pace è prepararsi a combattere. Per cosa? Per la pace. Il resto è ipocrisia, viltà, stupidità: sarebbe difficile gran lunga preferibile il silenzio.