Le società occidentali, e in particolare l’Europa, si trovano ad affrontare un problema che si è presentato per la prima volta nella storia dell’umanità: l’essersi inoculate volontariamente il virus che le sta lentamente uccidendo.
Questo virus si chiama immigrazione di massa, legale o illegale, la seconda essendo una variante, più virulenta e invasiva, della prima.
Viene spontaneo chiedersi: la civiltà occidentale si è forse voluta suicidare, destino comune di tutte le civiltà, secondo la nota teoria di Toynbee?
Non credo, ritengo anzi che la nostra civiltà, che diamo per malata, stia scoppiando di salute in ogni angolo del pianeta: lo stile di vita, la tecnologia che ha portato alla libertà di pensiero, di informazione e di comunicazione offerte dall’Occidente, sono state accolte da miliardi di individui di etnie, civiltà e fedi religiose diverse.
Popoli interi sono stati proiettati, nel giro di pochi decenni, dal medioevo all’epoca dell’energia nucleare, dei missili e della robotica.
Il tramonto dell’occidente
Il fatto stesso che milioni di persone cerchino di emigrare nei Paesi occidentali dimostra la forza attrattiva della nostra civiltà, o meglio: del benessere che riesce a garantire, poiché, ed è questo il problema, gran parte degli immigrati non sono disposti a condividere le premesse ideologiche che hanno portato al nostro stile di vita.
Dunque l’Occidente, con buona pace di Spencer che ne profetizzava il declino, non avrebbe ragione di dubitare della propria forza e del proprio primato, eppure l’inoculazione potenzialmente letale è avvenuta e in modo volontario.
Ma è stata voluta perché considerata terapia efficace contro altre malattie che avevano devastato l’Occidente e l’intera umanità: guerre nazionaliste, poi diventate mondiali, sfruttamento coloniale, suprematismo razziale e oppressione di massa nel nome di “Sua Maestà La Storia”.
La terapia, entro certi limiti, ha funzionato: gli occidentali, negli ultimi decenni, hanno accolto con convinzione una filosofia di vita fondata sulla tolleranza e sull’accettazione delle diversità. Si sono anzi illusi che la società multietnica, nella quale ciascuna etnia vive secondo le proprie tradizioni accanto ad altre etnie culturalmente diverse, potesse aprire all’umanità le porte della pacifica convivenza tra i popoli, smentendo il noto aforisma di Flaiano:
“Quando i popoli si conosceranno meglio, si odieranno di più”
Ahimè, le cose invece sono andate proprio come preconizzava il buon Ennio perché, con la terapia, si è diffuso un virus che sta mettendo a rischio la sopravvivenza della nostra civiltà.
Come già accennato sopra, nell’organismo occidentale si sono infatti moltiplicati corpi estranei che attaccano i nostri valori e la nostra visione del mondo, a cominciare dalle comunità islamiche: espressioni di una teocrazia che, da 1400 anni, mantiene in uno stato di sottomissione circa due miliardi di persone, in particolare le donne.
Banlieu d’Europa
Comunità che, nelle grandi città europee, hanno trasformato interi quartieri in “no go zones” governate dalla Sharia e precluse persino alle Forze dell’Ordine. Periodicamente in tutte la nazioni europee si scatenano attacchi terroristici al grido di Allah U Akhbar o insensate rivolte di massa con danni per milioni di euro.
Perfino nei centri di provincia spadroneggiano ormai gang di giovanissimi immigrati di terza generazione che delinquono, molestano e non di rado stuprano le nostre donne.
Ma anche l’espansione della Cina non deve preoccuparci di meno: gli immigrati cinesi spesso non rispettano le regole sindacali a tutela di lavoratori, sfruttati in modo indegno, alla faccia del comunismo di stampo maoista.
Il risultato?
Intere aziende locali messe in ginocchio da questa concorrenza sleale, come è accaduto a Prato nel settore tessile. Quello cinese è un modello sociale nel quale l’individuo è poco più di una marionetta, i cui fili sono tirati dalle dita invisibili del Gran Partito. No, non ci siamo: la cara vecchia Europa si fonda su ben altri valori di libertà e tolleranza!
Infine un’altra menzione di disonore: quella relativa ai tanti immigrati centro e sudamericani, appartenenti a gang criminali, ai cartelli dei narcos, che producono e riversano in Occidente tonnellate di droga: eroina, cocaina, metamfetamine e ora il micidiale Fentanyl.
L’esempio giapponese
Eppure una terapia efficace per contrastare l’espansione del virus è stata trovata e applicata, precisamente in Giappone: si tratta del “Permesso di soggiorno a tempo determinato”, che garantisce lavoro agli immigrati, alle stesse condizioni dei Giapponesi, per un numero limitato di anni, allo scadere dei quali dovranno tornare nel Paese d’origine.
Non è un caso che sia stato il Giappone ad approvare una soluzione tanto rigorosa quanto intelligente: i cittadini del Sol Levante possono esser di destra o di sinistra, progressisti o conservatori, ma una cosa li accomuna: sono nazionalisti e diffidenti nei confronti di altri popoli, essendosi dovuti difendere per secoli dalle mire espansioniste della Cina.
Tuttavia anche in Giappone hanno bisogno di immigrati e infatti se ne contano quasi due milioni, però tutti assunti con contratti temporanei, ovvero: durata di cinque anni e divieto assoluto, se l’immigrato è sposato, di portare la propria famiglia, pena la rescissione del contratto.
Questo per due motivi, che tutelano sia gli interessi del Giappone che quelli degli immigrati: primo, perché i famigliari finirebbero per gravare sul Welfare, secondo, perché non converrebbe neppure all’immigrato mantenerli in Giappone, che ha un costo della vita altissimo.
Molto più saggio mandare i soldi alla famiglia rimasta nel Paese d’origine, il cui costo della vita è di gran lunga inferiore a quello del Sol Levante, e depositare in banca il resto dei risparmi.
Creare ricchezza
Allo scadere del contatto di lavoro, l’immigrato tornerà a casa con un bel gruzzolo e con una professionalità acquisita, in grado di garantire alla propria famiglia un futuro di relativo benessere.
Ora, immaginiamo per un momento che la maggior parte di questi due milioni di immigrati siano padri di famiglia con moglie e due – tre figli a carico: è facile capire che, grazie alla sua rigorosa me efficiente politica migratoria, il Giappone, ogni cinque anni, toglie dalla povertà circa dieci milioni di persone, ovvero la popolazione dell’Ungheria.
In vent’anni fanno circa quaranta milioni di persone, cioè quasi la popolazione della Spagna.
Chiediamoci dunque quante persone potrebbe togliere dalla povertà l’intera Unione Europea, se adottasse un sistema alla giapponese, magari concedendo all’immigrato un periodo di permanenza più lungo.
Come minimo sarebbero sessanta – settanta milioni di persone ogni otto –dieci anni, ovvero la popolazione dell’intera Germania.
L’assalto alle coste
Ora, sfido chiunque si proclami di sinistra e sia favorevole all’immigrazione, a non trovare efficace il sistema nipponico, sia dal punto di vista umanitario che organizzativo, se paragonato alla caotica e destabilizzante politica migratoria europea: quella delle porte aperte, delle migliaia di migranti sistemati in hotel a spese dei contribuenti o, come accade in Italia, scaricati come sacchi di patate dalle navi delle ONG nei nostri porti, per poi essere abbandonati al degrado, allo sfruttamento o, nei casi peggiori, alla delinquenza.
I più fortunati andranno sì in hotel, per arricchire un giro di cooperative specializzate nello spremere soldi ai contribuenti nel nome dell’accoglienza.
Non era forse di sinistra lo slogan che veniva ripetuto diversi anni fa, “Lavorare meno, lavorare tutti”?
Ebbene, se le Nazioni europee adottassero il modello migratorio giapponese, quello che era solo un ritornello politico potrebbe diventare una florida realtà: per noi, stanchi di subire il peso di un’immigrazione fuori controllo, ma anche per i migranti stessi e per le loro famiglie, purché rimaste nel Paese d’origine.
Chi ha il permesso?
Rimarrebbe un ulteriore problema da risolvere: che fare di tutti gli immigrati che hanno già ottenuto i permessi di soggiorno tradizionali, ovvero a tempo indeterminato, e che si sono portati qui moglie, figli e, spesso, interi clan famigliari?
Varrebbe lo stesso principio: la legge che introduce i permessi di soggiorno a tempo determinato verrebbe estesa anche a loro, mettendoli nella situazione di approfittare degli anni rimasti per risparmiare denaro e poi tornarsene nel loro paese.
La prima cosa che farebbero, ovvio, sarebbe di rispedirvi la famiglia, sempre in base al principio che è molto più conveniente mantenerla nel Paese d’origine.
Questo verrebbe a beneficio anche delle casse della nazione che li ospita, non più costretta a spendere cifre esorbitanti per il welfare a favore delle loro famiglie: alloggi, educazione scolastica, assistenza sanitaria e progetti di integrazione, spesso falliti, dei figli più turbolenti.
Come per incanto, si ridurrebbero le classi scolastiche dove gli studenti autoctoni sono ormai minoranza e sparirebbero le “baby gang”, con il degrado che ne deriva: furti, spaccio e risse che costringono gli abitanti di interi quartieri, una volta vivibili, a subire un regime di coprifuoco.
Quanto agli immigrati irregolari, espulsione in tempi stretti: se poi i Paesi d’origine dovessero rifiutare il rimpatrio, verrà sospesa con loro la convenzione per l’immigrazione a tempo determinato.
Seguire gli esempi virtuosi
Da ultimo: la soluzione giapponese consentirebbe di trovare un terreno comune di dialogo e collaborazione tra la sinistra solidale con il Terzo Mondo, ma pragmatica e ragionevole, e con la destra che privilegia la difesa dell’identità nazionale e la sicurezza dei cittadini.
Ugualmente importante sarebbe l’adozione di leggi rigorose nei confronti degli immigrati che delinquono: i loro reati dovrebbero essere puniti con un’aggravante della pena, scontata la quale i soggetti in questione andranno rinviati nel Paese d’origine.
L’aggravante trova la sua giustificazione nel fatto che il reo ha dimostrato ingratitudine e disprezzo nei confronti della società che lo ha accolto, dandogli lavoro, assistenza e dignità. Se clandestino, è stato non di rado salvato dal rischio di naufragio, nutrito, ospitato e curato a spese dei contribuenti italiani, che non meritano di esser traditi con atti criminosi.
Credo che su questo le forze politiche abbiano il dovere di confrontarsi, per trovare una soluzione a un problema bipartisan che va oltre le contrapposizioni ideologiche.
L’idea del permesso di soggiorno a tempo determinato potrebbe infatti innescare un processo di “remigrazione soft”, non istantanea e brutale come quella paventata dalle forze di sinistra: una “remigrazione” diluita nel tempo e vantaggiosa per gli immigrati stessi, da noi accolti con un sistema di turnover controllato e rigoroso.
Le battaglie, diceva una vecchia locuzione latina, si vincono anche facendo ponti d’oro al nemico che si ritira: se dunque gli immigrati si sono trasformati da risorse in un peso ormai insostenibile, facciamo in modo che sia per loro conveniente tornarsene nel proprio Paese con le tasche piene.
Quelle degli Europei lo sono già da tempo…
La favola di Benjamin
Ora mi si consenta di lavorare un po’ di fantasia, immaginando la favola a lieto fine di un migrante che arriva da noi, in modo regolare e seguendo le procedure di cui sopra.
Benjamin, il nome del nostro eroe immaginario, è un giovane senegalese sposato con tre figli, con una gran voglia di lavorare ma scarse possibilità di impiego nel suo Paese. Nella nostra Ambasciata a Dakar firma un contratto di lavoro che scadrà dopo esattamente dieci anni, ovvero il periodo di soggiorno a termine concesso dal Governo Italiano.
Arriva da noi in aereo e il viaggio viene pagato dalla stessa ditta che lo ha assunto.
Il lavoro consiste nel viaggiare con gli autotrasportatori, aiutarli a caricare e scaricare i mobili e, di tanto in tano, sostituirli alla guida. La paga è buona, 1500 € al mese più gli straordinari, piuttosto frequenti.
Benjamin non ha grossi problemi a trovare un alloggio in affitto in condivisione con altri migranti, anch’essi a tempo determinato: il padrone di casa gliela affitta volentieri, sapendo che, dopo dieci anni, gli inquilini la libereranno per tornare nel loro Paese.
Pena l’immediata esecuzione dello sfratto da parte delle Forze dell’Ordine, se non dovessero uscire di casa spontaneamente o se smettessero di pagare l’affitto.
I risparmi
Benjamin ogni mese invia ai propri famigliari 200 – 300 €, una cifra che in Senegal garantisce un buon tenore di vita a tutti loro. Le comunicazioni avvengono, almeno due – tre volte la settimana, via Whatsapp, a titolo assolutamente gratuito. Inoltre Benjamin riesce a tornare in Senegal almeno due volte all’anno, durante le ferie; in un paio di occasioni ha fatto venire in Italia moglie e figli, facendo loro visitare il Belpaese.
Detratte le spese alimentari, di affitto e di bollette, condivise con gli altri colleghi, e detratte le spese personali, Benjamin riesce a metter da parte ogni mese dai 400 ai 500 €, ovvero circa 5000 € l’anno: il che, al termine dei dieci anni di lavoro, si concretizzeranno in più di 50.000 €, interessi compresi.
L’azienda lo liquiderà con una buonuscita di 15.000 €, identica a quella che avrebbe percepito un collega italiano. Benjamin non avrà diritto ad una pensione, tuttavia sarà in grado di tornarsene a casa con quasi 70 .000 €, una piccola fortuna in Senegal.
Inoltre usufruirà di un prestito ottenuto dalla banca italiana presso la quale ha depositato i suoi risparmi: ciò gli consentirà di acquistare un furgone e di iniziare la propria attività di traslocatore, forte di una professionalità acquisita da noi.
Il Microcredito
L’idea del “microcredito”, vale la pena ricordarlo, è dell’economista Muhammad Yunus, premio Nobel per la pace 2006, nonché Primo Ministro del Bangladesh dall’8 Agosto del 2024.
Al termine del suo contratto di lavoro, Benjamin sarà sostituito da un altro giovane africano, magari un suo parente, che lui ha ritenuto opportuno segnalare alla ditta: un altro giovane con famiglia a carico, con tanta voglia di lavorare e di comprovata onestà.
Il ciclo virtuoso del “lavorare meno, lavorare tutti” continuerà dunque a intervalli di un decennio, per dare infine i suoi frutti migliori anche per gli italianai dopo quarant’anni: ovvero quando i contributi versati dall’azienda per ogni lavoratore straniero andranno a rivitalizzare le asfittiche pensioni dei nostri anziani.
Si realizzerà così in pieno quello che è un altro slogan sbandierato dalla sinistra, e cioè che gli immigrati sono indispensabili perché ci pagheranno le pensioni.
Conclusione?
E vissero tutti felici e contenti
Leo Bacchi
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