Roma 1970, la lotta di strada e il crocevia del fato – Tre sono stati i film cult che hanno caratterizzano la mia giovinezza e, in qualche modo, influenzato il mio modo di pensare politico, tutti della seconda metà degli anni 60.
Berretti Verdi e la fascinazione di Fini
Il primo è “Berretti Verdi” del 1968 ove un John Wayne in sovrappeso, nel ruolo di un improbabile colonnello delle Forze Speciali USA, racconta di un Vietnam fumettistico in cui loro sono i buoni difensori della democrazia mentre i Viet belve sanguinarie e corrotte.
Un film che spopola negli ambienti missini, creando entusiasmo fra gli spettatori che fanno dell’anticomunismo la loro principale bandiera ideologica.
Gianfranco Fini affermerà come sia stata la visione di Berretti Verdi a farlo diventare “fascista”; bontà sua: film che invece mi lascia scettico, come scettico mi lasciavano le cariche del 7° cavalleria contro gli indiani nei tanti western confezionati ad Holliwood per tramandare il mito dell’invincibilità della bandiera a stelle e strisce ad uso e consumo delle platee europee, nel persistente tentativo di colonizzazione culturale.
Oltre l’MSI
Così come il mio cuore batteva per Geronimo o Cochise, così lo faceva per i contadini in armi del lontano Vietnam del Sud.
Non ero solo in questo pensare ma in compagnia di alcune élite culturali del mondo di Destra che si riconoscevano nella rivista “l’Orologio”, nell’UNCRSI l’organizzazione eretica degli ex combattenti di Salò, nel Centro Studi Ordine Nuovo ed in Lotta di Popolo.
Piccole realtà di un mondo che stava per entrare in fibrillazione dopo i fatti di Valle Giulia.
La Battaglia di Algeri
Secondo film: il capolavoro di Gillo Pontecorvo “la battaglia di Algeri” sempre del 1968; incentrato sulla recente guerra di Algeria. Film chiaramente di parte ma estremamente ben diretto usando la fotografia in bianco nero con grande maestria per esaltare il contrasto drammatico delle immagini ed ottenere un grande effetto emotivo.
Il film racconta, essenzialmente, gli eventi accaduti ad Algeri, nel 1957, fra gli indipendentisti del FNL ed i paras del 3° RPC del colonnello Bigeard, le leggendarie “lucertole” in un crescendo di azione.
Lo fa con toni bilanciati; riconoscendo, se non la legittimità della tortura, almeno l’inevitabilità dell’operato dei soldati a cui Parigi ha affidato il compito di vincere a qualunque costo e così faranno, introducendo per primi, nella dottrina militare, il concetto di guerra rivoluzionaria.
Un vero sparti acque per la mia generazione che, per emulazione, comincerà a sognare d’indossare il basco amaranto riempendo il distretto militare, durante i fatidici “tre giorni” di selezione per la leva, di domande per andare volontari nella Folgore.
Ma anche uno spartiacque di pensiero per capire come la sovversione comunista non si possa battere con le sole armi ma serva un’operazione culturale rivolta alla conquista dei cuori e delle menti delle popolazioni interessate.
Lezione che gli americani non capiranno in Vietnam se non in maniera goffa ed approssimativa e che li porterà ad una sonora, umiliante sconfitta politico-militare.
Le suggestioni africane
Ultimo film: “Africa Addio” del 1966, del regista Gualtiero Jacopetti. Una sorta di crudo documentario sul vento di sangue e follia che stava spazzando il Continente Nero in preda alla ribellione contro il vecchio potere coloniale dei bianchi per ottenere l’indipendenza.
Una ribellione ben pilotata dalle centrali di potere di Washington, Mosca e Pechino, mirante a sostituire i propri uomini nei governi degli stati emergenti, contando sul caos che si sarebbe generato da un affrettato ritiro dei funzionari europei.
Di questo il Congo (oggi RDC) era il caso più emblematico, con i suoi enormi giacimenti di minerali preziosi.
La pellicola si sviluppava in un caleidoscopio di violenza selvaggia contro militari e civili inermi nonché mattanze indiscriminate di grandi animali per prelevarne le zanne d’avorio od il corno.
Sud Africa il “pianeta alieno”
Dopo scene mozzafiato che ti avvolgevano nell’orrore del rosso sangue, con un cambio di scena improvviso, venivi trasportato in un’altra realtà che sembrava ripresa da un pianeta alieno: fotogrammi di strade ordinate e gente festosa di tutte le razze: era la messa a fuoco idilliaca su paesi come Il sud Africa e la Rhodesia ove la miscela esplosiva delle rivolte in corso era stata ben contenuta da istituzioni efficienti e mano ferrea dei governi bianchi in carica a Pretoria e Salisbury.
Governi che, per inteso, non si ritenevano espressione di una realtà neocoloniale ma africani loro stessi sia pure appartenente ad una tribù minoritaria dalla pelle di un altro colore.
Guardavo il tutto affascinato con gli occhi di un ragazzo che ignorava totalmente come, da lì a poco, quel mondo sognato sarebbe diventato la sua casa per il solito gioco capriccioso del Fato e, lui stesso, micro-parte di quel processo in atto, nel continente più burrascoso ed affascinante che un europeo possa immaginare.
Passano gli anni, non molti, siamo nell’estate del 1969, con alle spalle gli esami di quinto istituto tecnico superati, sia pure per il rotto della cuffia; in tre, inseparabili amici e camerati, dobbiamo ora pensare a cosa fare da grandi ma senza fretta.
Il CIME e il crocevia del destino
Mentre stiamo girovagando per le strade di Roma, in una calda giornata di agosto, ci capita d’imbatterci in un portone su cui campeggia la scritta “CIME” (Comitato Interministeriale Migrazioni Europe); ingresso invitante verso un ampio salone che dava l’idea di essere ben fresco.
Non ci pensiamo due volte ed entriamo non avendo la più pallida nozione di dove fossimo. Ripreseci dalla calura soffocante cominciano a fare domande ad un usciere per capire cosa rappresentasse quell’istituto e qui veniamo a sapere che si tratta di un ente governativo atto a favorire gli spostamenti di persone in cerca di lavoro verso territori extra europei, quali Brasile; Australia e Sud Africa.
Il tempo non ci manca la curiosità neanche e così, per puro gioco, compiliamo i tre moduli senza riporre la minima speranza o considerazione su quello che stiamo facendo.
In realtà abbiamo appena segnato un patto con il Destino, io in modo particolare.
Arriva ottobre e la riapertura delle scuole; libero da impegni scolastici mi concentro sull’attività politica con il Fronte di Azione Studentesca, la giovane creatura militante creata dal Centro Studi su pressione dei ragazzi di base e di dirigenti giovanili come Lello Graziani, Paolo Signorelli e Mario Tedeschi.
Arriva il decennio di piombo
È l’inizio di una stagione di fuoco caratterizzata da scontri continui con i compagni e da manifestazioni di piazza in un crescendo che non sembra fermarsi.
I rossi sono colti di sorpresa; accusano il colpo; hanno a che fare con una creatura nuova che non sventola tricolori; non parla di Alto Adige; non esalta il mito yankee e poi… Veste come loro: giacconi militari, capelli spesso lunghi, jeans.
Ma sono tosti, nelle mani e nel linguaggio che usano.
Quando mai dai “fasci” hanno sentito espressioni come “rivoluzione nazionale”; “né Cristo né Marx”; quando mai “i fasci” hanno parlato di “socializzazione e compartecipazione aziendale”.
La lotta nelle strade
Ci sottovalutano e ne pagano il pegno nelle rotte di fronte ai nostri assalti al Pantaleoni; al Dante; al Virgilio, al Fermi, al Mamiani e poi negli scontri epici, del marzo 1970, di fronte al Ministero della Pubblica Istruzione ed in quel Ponte Matteotti ove avranno bisogno di chiedere aiuto ai Katanga di Milano poiché da soli non ce la fanno.
Nel frattempo, un giorno mi arriva una raccomandata. L’apro e dentro vi trovo una lettera dell’ambasciata del Brasile che mi comunica come la mia domanda per un permesso di lavoro sia stata accettata. Incredibile… Quel modulo compilato a caso è stato accettato.
Riunione familiare…Mio padre netto: “tu non parti sei troppo giovane e inesperto…ci faresti vivere nell’ansia” mia madre è con lui nella decisione.
A quei tempi eri maggiorenne a 21 anni non avevo scelta se non chinare la testa con la rabbia in corpo.
Non passa molto ed arriva la seconda raccomandata, con le stampigliature a lato del Consolato sudafricano. Altra sorpresa!
Mi hanno accettato. Ma, rispetto alla prima, alcune cose importanti sono cambiate negli umori familiari. Una “fuga” tattica a Firenze per evitare le indagini in corso sugli scontri al Pantaleoni ed un ricovero in ospedale per le ferite riportate a Ponte Matteotti (12 punti in testa) hanno fatto cambiare idea a mio padre: “piuttosto che vederti in carcere o peggio…È meglio che te vai; sarà dura per noi ma è la soluzione migliore, per te e per noi”.
Viaggio verso il continente nero
Il tempo di fare le pratiche burocratiche…E poi quella valigia che preparerò la sera del 21 aprile 1970 con dentro, oltre ai vestiti, il guscio di un sogno che sta per realizzarsi.
Nel pomeriggio del 22 sono a Fiumicino, pronto ad imbarcarmi su quel jet delle linee aeree sudafricane che, via Lisbona e Luanda mi farà atterrare in una Johannesburg, moderna e sofisticata che mai avrei immaginato potesse esistere in terra d’Africa. Iniziava il capitolo non scritto di quel film che avevo visto, con entusiasmo, alcuni anni prima.
Atterro, la mattina del 23, nel vero cuore di quel “bastione bianco” destinato a durare mille anni ma che, in realtà, inizierà a frantumarsi molto prima.
Dieci anni dopo anche io, nel riprendere un volo per Roma, dopo aver vissuto avventure uniche, dovrò dire a me stesso: “Africa Addio”, fra i mille colori di un tramonto quasi psichedelico che mi annunciano come i sogni non sempre muoiono all’alba.
Enrico Maselli
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