La cultura della cancellazione woke, sedicente risvegliata (meglio se avesse continuato a dormire) , è una vendetta contro la storia, un suprematismo del tempo presente. Conduce una vera e propria guerra contro il passato. Parole obbligatorie, grammatica inventata, statue abbattute, nuovi luoghi comuni “presentisti”, spesso ridicoli, che prendono il posto di convinzioni radicate su cui intere comunità hanno fondato se stesse. Libri colpevoli di esprimere idee non conformi alla vulgata contemporanea vengono vietati. Roghi simbolici in attesa dei falò reali.
Quando non vengono nascosti o “purgati”, i testi considerati politicamente scorretti, i film, le opere d’arte sospette esposte nei musei, sono preceduti dai cosiddetti trigger warnings , avvisi che “segnalano la presenza di contenuti che potrebbero scatenare emozioni negative, pensieri o ricordi spiacevoli in persone che hanno subito un trauma o sono particolarmente sensibili a determinate tematiche, come violenza, abusi o perdita. L’obiettivo è permettere alle persone di scegliere se affrontare il contenuto o meno, offrendo loro una preparazione psicologica e una possibilità di evitare la ritraumatizzazione.”. La nuova arte degenerata. La definizione citata è di Google, elaborata dall’Intelligenza Artificiale. Guarda un po’ chi sono i veri patroni dell’uragano woke.
In sostanza si avvertono lettori, fruitori di opere e contenuti che questi non corrispondono al canone inverso presentista. Appartengono al passato: meritano di essere cancellati, o almeno derisi, sottoposti a censura etica dal tribunale della Laica Inquisizione. Il criterio è elementare: tutto ciò che non è stato inventato, prodotto, pensato dalla generazione presente è sbagliato, indegno, barbaro. I contemporanei si sono risvegliati e sanno con infallibile certezza che la visione del mondo odierna è l’unica corretta, anzi definitiva. Il risveglio ha conferito la convinzione apodittica che il passato deve essere totalmente rimosso per delitto di discordanza con Oggi. Vasta impresa in nome della quale l’intero retaggio storico della civiltà occidentale è stato trasformato in campo di battaglia. Il verdetto non prevede assoluzioni, attenuanti o esimenti.
Il problema è che se si destituisce ogni passato diventa impossibile dare senso alla vita delle persone nel presente. Temiamo che questo sia l’obiettivo, non tanto dei teorici woke, tra i quali abbondano spostati e soggetti borderline, ma dei loro padroni globalisti, quelli che li hanno posti in cattedra, che hanno affidato loro la direzione dell’apparato culturale, mediatico, comunicativo di cui sono proprietari. Infatti una caratteristica della cultura della cancellazione – risibile ossimoro poiché la cultura è accumulo- è di non mettere affatto in discussione l’ordine economico-sociale e finanziario vigente, il globalismo capitalista, di cui è è fiancheggiatrice e avanguardia. Il nemico sono io, sei tu che leggi, è la gente comune, riassunta nella formula dispregiativa pale, male and stale, pallido (bianco) maschio e stantio ( vecchio, arretrato), estesa all’intera storia della civiltà.
La contestazione non tocca la struttura concreta del potere , ma reinterpreta ogni cosa, ogni passato, ogni evento come vendetta postuma contro i torti di ieri. Poiché il passato non c’è più e non può essere cambiato , vittime e carnefici devono essere creati e situati nel presente. L’idea di sensibilità violata è una narrazione artificiosa, nata perché qualcuno ha deciso di cucirci una storia , attribuendo a qualcosa- una statua di Colombo, l’opera di Aristotele, certi principi- un significato di prevaricazione capace di creare lo stato d’animo offeso, essenziale al meccanismo della cancellazione.
Il passo successivo è l’indignazione a comando, poi la sanzione, infine il divieto e la damnatio memoriae, la condanna all’oblio per indegnità. La prima vittima è il linguaggio che interpreta la realtà, per cui dobbiamo obbligatoriamente dire sindaca o avvocata, rivolgerci a “lavoratrici e lavoratori”, mentre a nessuno era mai passato per la testa che in italiano il genere maschile “esteso” contenesse discriminazione.
La seconda è la libertà di giudizio. La volontà di preservare qualcuno dal turbamento contiene il divieto dell’espressione libera in nome di un’astrattezza o della mera intenzione offensiva, inesistente in opere che utilizzavano, come è ovvio, i canoni linguistici, culturali, le conoscenze dell’epoca in cui furono pensate. La dittatura del presente impedisce il formarsi di coscienze libere e inibisce il futuro.
E se le generazioni decidessero che il criterio woke è sbagliato, volessero conoscere altri punti di vista o intuissero che il canone di oggi potrebbe essere smentito domani? Quanto all’offesa percepita, da cancellare o punire, spesso ha tratti paranoidi. Come può offendere un verso di Shakespeare? Se accade, significa che le generazioni allevate a pane e woke sono fragilissime, fiocchi di neve ipersensibili, incapaci di vivere nel mondo, costrette da pessimi maestri a nascondere la testa sotto la sabbia, fino a diventare odiatori implacabili di chiunque infranga la bolla di sapone in cui sono immersi.
Il loro immaginario, lungi dall’essere decolonizzato, come pretende la narrazione woke, è stato svuotato e riempito di concetti circondati da un’aura di indiscutibilità, degli a priori negare i quali destruttura menti fragili disabituate al ragionamento. Ride sotto i baffi il capitalismo assoluto al potere, che di teste vuote ha gran bisogno, tanto più se invalidano la storia, distruggono il passato, emendano la conoscenza. Questa è la quintessenza della modernità liberale le cui colpe passate tanto indignano l’ideario woke. Non è nuova la volontà di azzerare tutto e ripartire nudi e crudi. E’ la storia della Rivoluzione francese, del comunismo, del maoismo, delle tradizioni che impongono finanche il loro calendario. Non ha mai portato molto di buono, ma l’uomo non impara mai dai propri errori, tanto più se è programmato per ignorarli.
Un libro dell’ungherese Frank Furedi, naturalizzato americano, La guerra contro il passato, prende atto della natura iconoclasta, furente, della cultura della cancellazione, la rabbia di chi violenta il passato- magari distruggendo una statua presente da secoli- per vendicarsi del presente e “diseredare la storia”. Ingenua è la sorpresa di Furedi quando osserva che le ubbie ideologiche odierne, incubate negli anni Sessanta, sono esplose a livello di influenza culturale dagli anni Ottanta, dominati da Ronald Reagan e Margaret Thatcher.
Confonde liberalismo/liberismo e conservatorismo, ideologie divergenti. I liberali degli anni Ottanta, come i loro referenti culturali ed economici (Von Hajek, Friedman, Ayn Rand) avevano essenzialmente preoccupazioni economiche: difendevano la libera impresa e il dogma della crescita, la forma del progresso cara alla destra liberale. Il loro preteso conservatorismo si limitava a difendere l’assetto patrimoniale esistente. Fu Margaret Thatcher ad affermare che la società non esiste, ci sono solo gli individui. “There is no such thing as society”. Distillato di cultura della cancellazione, come l’altra affermazione iconica della dama inglese, secondo cui “non c’è alternativa” alla società di mercato, l’acronimo TINA (there is no alternative) invocato dal pensiero liberale.
E fu il colonialismo anglosassone e francese a praticare la cancellazione culturale – deculturazione seguita da acculturazione forzosa- nei riguardi dei popoli “arretrati”, sottoposti a un energico lavaggio del cervello per condurli all’inevitabile progresso, coincidente con l’adesione al modello liberaldemocratico occidentale, giunto ora- secondo la vulgata woke– all’ apice civile e culturale della storia. Un abbaglio grave se espresso da esperti di scenari geopolitici come Francis Fukuyama, devastante se diventa l’idea unica di generazioni a loro volte deculturate, oltreché infiacchite dalla bambagia esistenziale. Del tutto fuorviante è la pretesa di un giudizio morale inappellabile di condanna del passato: razzismo contro la storia. Una conseguenza è l’autocompiacimento accecato dalla negazione di idee, principi, forme di vita differenti, incomprensibili in quanto manca il metro di paragone. Il presente diventa totem e tabù di un’ideologia simile alla caverna di Platone in cui le ombre sostituivano la realtà.
Il passato da cancellare è ciò che è dato, il fondamento, naturale ( la biologia negata) o culturale, gli usi, costumi, tradizioni e principi sedimentati nel tempo. Assistiamo a un singolare fenomeno di inversione: abitudini, norme, istituzioni, sono dichiarate obsolete in nome della superiorità del presente, ossia di una credenza indimostrata, mentre chi le difende- quando è loro concessa graziosamente la parola- deve produrre la prova della validità delle proprie asserzioni. Ma come è possibile dimostrare la normalità dell’esistenza di due sessi, di razze diverse, del fatto che la gravidanza è stata assegnata dalla natura o da Dio all’esemplare femmina dei mammiferi (un nome sospetto, che suggeriamo ai poliziotti del linguaggio)? Né è possibile fornire rigore scientifico all’uso di certe parole o a comportamenti che il giudizio comune ha sempre ritenuto normali (altro termine di cui si invoca l’abolizione).
Non possiamo dimostrare che è meglio conoscere Dante, Shakespeare, la filosofia e la storia, piuttosto che cancellarli. Manca un codice comune di comprensione. Potremmo asserire che la condizione preferita dai viventi è l’omeostasi- il mantenimento di condizioni stabili – ma rimarremmo nel campo della realtà, sconfitta nell’immaginario woke ( e non solo) dalla virtualità. Vano rammentare che teorici liberali, da Stuart Mill allo stesso Hajek o il progressista Jonas hanno argomentato a favore dell’importanza di costumi e modi di vita consolidati, ma ci riferiremmo al passato. Nessuno ci risponderebbe. Solo sguardi sdegnati, al più il compatimento riservato a chi non è allineato ai tempi.
Seguendo Erich Fromm- non certo un bieco reazionario- affermiamo che è in atto una risentita guerra dell’avere contro l’essere in cui screditare il passato è funzionale agli interessi del mondo-mercato e del suo moto perpetuo volto al profitto. Il simbolo universale del presente è il denaro, per natura mobile, senza passato né futuro. Il presentismo che cancella, inghiotte e sputa è espressione di un mondo dominato dal mercato, dal consumo, cioè dall’obsolescenza programmata. E da un’idea di libertà negativa, emancipazione “da”. Vincoli, idee, identità, eredità; dal passato, il grande nemico. Nudi alla meta, ma il traguardo è la dissoluzione. Individuale, comunitaria, civile. Al risveglio woke succederà la notte definitiva. Diventerà anch’esso passato. Che cosa avverrà di questo pezzo di mondo lo scopriremo vivendo. O morendo.
Roberto PECCHIOLI
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