Recensione di Matteo Pio Impagnatiello
Il saggio di Maurizio Rossi La rivoluzione tedesca si colloca nel panorama degli studi storico-ideologici contemporanei come una riflessione militante e sistematica sulla natura del nazionalsocialismo, emancipata dalle convenzioni storiografiche correnti. L’autore non si limita a una mera disamina fattuale degli eventi, ma si propone di riformulare le coordinate interpretative
attraverso cui è stato fino ad oggi compreso (o, secondo lui, frainteso) il fenomeno politico nazionalsocialista.
Il fulcro argomentativo dell’opera si articola intorno alla tesi secondo cui il nazionalsocialismo tedesco non fu soltanto un’esperienza politica totalitaria o autoritaria, bensì una forma peculiare di rivoluzione a carattere popolare, sociale, comunitario e nazionale. Rossi conduce questa tesi attraverso un’indagine che si configura come un tentativo di “restituzione semantica” del termine nazionalsocialismo, da tempo, a suo avviso, corrotto nell’uso corrente dalla riduzione propagandistica a “nazismo”, inteso quale epiteto demonizzante e privo di contenuto dottrinario.
La metodologia adottata è tipicamente revisionista, nel senso proprio della parola: Rossi non si limita a contestare alcune versioni ufficiali dei fatti, ma mette in discussione le categorie storiografiche stesse attraverso cui quei fatti sono stati ordinati. La pars destruens del saggio è, in tal senso, significativa: l’autore denuncia la funzione epistemologicamente distorsiva del Processo di Norimberga, concepito non già come istanza giuridica neutra, ma come atto fondativo di una damnatio memoriae istituzionalizzata. Egli chiama in causa studiosi quali David Irving, Rainer Zitelmann, Stanley G. Payne e John Lukacs, impiegandone le ricerche per legittimare una lettura alternativa, o comunque meno ideologicamente orientata, del fenomeno in oggetto.
La pars construens del testo è invece rivolta a ricostruire il corpo dottrinale del nazionalsocialismo, non come appendice culturale del militarismo germanico, ma come espressione autonoma di una Weltanschauung organica, fondata sull’unità sintetica di socialismo e nazionalismo. Rossi rimarca il carattere operativo di tale sintesi: lungi dal ridursi a mera retorica politica, essa si sarebbe tradotta, nella prassi statale tra il 1933 e il 1939, in una ristrutturazione sociale effettiva. L’autore richiama, con apprezzabile rigore, la centralità dei concetti di Volksgemeinschaft (comunità di popolo), autarchia, Stato del lavoro e socialismo produttivista, opponendoli ai modelli plutocratici della Repubblica di Weimar e delle democrazie occidentali.
Un capitolo di particolare densità concettuale è dedicato alla polemica sul termine “fascismo tedesco”, che l’autore rigetta con motivazioni filologiche e politologiche: tale definizione, sostiene Rossi seguendo Karl Dietrich Bracher, non coglierebbe la specificità del nazionalsocialismo, poiché oscurerebbe la sua dimensione antiborghese, anticapitalistica e sociale. In questo senso, l’opera si pone anche come una denuncia del monopolio semantico esercitato dalla sinistra marxista sul concetto di “socialismo”.
La ricostruzione della componente rivoluzionaria interna al nazionalsocialismo si avvale di riferimenti puntuali e meditati alla cosiddetta Rivoluzione Conservatrice, con particolare attenzione ai contributi di Jünger, Spengler, Moeller van den Bruck e von Salomon. L’intento dell’autore è di evidenziare come l’identità ideologica del nazionalsocialismo non possa essere compresa alla luce delle categorie dicotomiche “destra” / “sinistra”, bensì alla luce di un orizzonte sintetico, polarizzato sull’idea di “terza via”.
Il recupero del “socialismo prussiano” di Spengler e della figura epica dell’“Operaio” jüngeriano sono elementi che conferiscono al testo una solida impalcatura teorica.
Particolarmente degno di nota è il capitolo dedicato alla figura di Albert Leo Schlageter, che viene interpretato come simbolo fondativo della fusione tra militanza patriottica e rivolta sociale. In questa sezione il testo si avvicina alla forma del saggio storico-biografico, con un impianto narrativo più accentuato, pur sempre mantenendo un registro analitico coerente con il tono generale dell’opera.
Rossi offre infine una riflessione conclusiva sull’egemonia ideologica liberale e sul ruolo della cultura storica quale strumento di legittimazione del potere globale. In quest’ottica, il libro si chiude con una severa critica alla “società aperta” popperiana, accusata di aver annichilito ogni forma di pensiero collettivo o organico in favore di un individualismo atomizzante e di una mercatocrazia globale. La critica si estende ai meccanismi di demonizzazione odierna – tra cui la reductio ad Hitlerum e l’equiparazione dell’antisionismo con l’antisemitismo – che vengono denunciati come esiti logici del paradigma interpretativo dominante.
In conclusione, La rivoluzione tedesca è un testo intellettualmente provocatorio e storicamente impegnato. Il suo valore risiede nella capacità di offrire una mappatura ideologica non conformista del nazionalsocialismo, costringendo il lettore colto a rivedere paradigmi ritenuti acquisiti. Il linguaggio è rigoroso, l’apparato documentario è solido e l’impostazione teorica è coerente. Si tratta di un’opera che si rivolge non tanto allo storico professionista, quanto al lettore attento e dotato di strumenti concettuali idonei a discernere tra narrazione e propaganda, tra memoria e oblio. In un’epoca in cui la neutralità epistemologica è spesso surrogata dall’unanimismo morale, l’opera di Maurizio Rossi rappresenta un contributo utile alla rinegoziazione critica della memoria storica europea.

𝗠𝗮𝘂𝗿𝗶𝘇𝗶𝗼 𝗥𝗼𝘀𝘀𝗶, 𝗟𝗮 𝗿𝗶𝘃𝗼𝗹𝘂𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝘁𝗲𝗱𝗲𝘀𝗰𝗮, 𝗘𝗱𝗶𝘇𝗶𝗼𝗻𝗶 𝗮𝗹𝗹’𝗜𝗻𝘀𝗲𝗴𝗻𝗮 𝗱𝗲𝗹 𝗩𝗲𝗹𝘁𝗿𝗼, 𝗣𝗮𝗿𝗺𝗮 𝟮𝟬𝟮𝟱, 𝗽𝗽. 𝟮𝟬𝟴, € 𝟮𝟬,𝟬𝟬