Luca Marfé, napoletano, classe 1980, Laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche all’Orientale di Napoli, Master in Relazioni Internazionali alla SIOI di Roma, titolare della cattedra di Storia Contemporanea all’Universidad Central de Venezuela di Caracas, giornalista professionista. Collabora con Il Mattino di Napoli, Vanity Fair Italia, Radio 1, Radio Kiss Kiss, Babilon e altre testate in qualità di esperto di Stati Uniti e America Latina. Sulla TV indipendente Byoblu cura due rubriche: “USA e getta” e “Caffè americano”. Considerato l’inizio pirotecnico della seconda presidenza Trump, lo abbiamo intervistato.
D – Come nasce il tuo interesse per il mondo americano, in particolare per quello statunitense?
R – Una vacanza. Estate 1998, la mia maturità, a soli 17 anni. Mio padre morto 6 mesi prima, mia madre che, come regalo, mi chiede di scegliere tra la classica festa per i 18 anni e un viaggio enorme, magari con l’idea di voltare pagina. Non ci penso neanche un istante, e così Los Angeles, la California, il Sogno Americano. Un ragazzino per le strade di Hollywood e per le spiagge di Venice, dovevo restarci un mese, di fatto non sono tornato mai più. Ho studiato da “pendolare”, da una parte all’altra del mondo, ho cumulato ad oggi 25 anni di Stati Uniti, tra Los Angeles appunto, e New York e Miami e 40 Stati toccati. Sono fiero delle mie radici napoletane e abruzzesi, ma per certi versi sono molto più…americano.
D – Hai raccontato con grande competenza l’ultima campagna per le presidenziali. Quali sono stati, a tuo parere, gli errori più gravi di Kamala Harris e del suo entourage?
R – L’aver mancato completamente le necessità reali, concrete e quotidiane del popolo. Una sinistra, che sinistra non è più, che anziché parlare di lavoro, di stipendi, di affitti, di inflazione, in generale di costo della vita, si è riempita la bocca di battaglie vuote e addirittura inventate, dagli oramai consueti allarmi fascismo, rischi democrazia, politicamente corretto, gender, asterischi e ridicolaggini di ogni genere.
Il tutto, peggio ancora, circondandosi di “celebrity” pagate profumatamente, a fare da testimonial a una candidata presidente inventata di punto in bianco, incapace persino di un discorso di senso compiuto. “Celebrity” pagate talmente tanto che, nonostante il miliardo (MILIARDO!) di dollari raccolto da Kamala Harris, hanno lasciato una voragine di debito della sua campagna elettorale che definire imbarazzante è dire poco. In estrema sintesi? Mentre Donald Trump parlava alla gente, con il linguaggio della gente e con l’atteggiamento dell’uomo qualunque, dell’americano medio per certi versi, Kamala e il PD le sbagliavano letteralmente tutte, una dietro l’altra.
D – E quali, sull’altro versante, le ragioni dello schiacciante successo di Trump?
R – Uomo del fare, pragmatico, e soprattutto patriottico. L’America in primissimo piano rispetto a una globalizzazione sfrenata, che doveva renderci tutti più ricchi e che ha reso invece tutti più poveri. Desideroso di uscire da tutti i principali scenari di crisi internazionali, di allontanarsi il più possibile da armi e guerre per ritornare vicino, vicinissimo, alle famiglie, al futuro dei figli, ai valori tradizionali. Due soli sessi, produzione industriale, e difesa a spada tratta degli interessi americani.
La rivoluzione del buon senso, dello spirito conservatore, percepita come necessaria in un tempo di smarrimento e di smantellamento (voluto, scientifico, a tratti criminale) dell’impianto sociale, storico e culturale di un grande Paese distrutto dagli abusi delle élite. Sul piano della libertà, ad esempio, con l’esperienza antidemocratica e anticostituzionale della gestione della pande**a di C**id-19. E sul piano delle ambizioni monche, sempre più depresse, a impedire il concetto stesso di Sogno Americano. La voglia irrefrenabile di tornare a sperare, a credere in sé all’interno dei propri confini e non per obiettivi globali percepiti nel migliore dei casi come inutili, nel peggiore addirittura come dannosi. “America First”, l’America prima, punto. Ciò che molto banalmente dovrebbe essere il dovere di qualsiasi presidente, per la propria Nazione appunto. L’espressione più alta, più chiara e più dirompente, di democrazia. Tutto questo, e molto altro ancora, è Donald Trump.
D – Come giudichi i primi provvedimenti della neonata presidenza di The Donald?
R – Come perfettamente aderenti alle promesse fatte in campagna elettorale. Un qualcosa cui ci siamo paradossalmente disabituati. Un politico che promette, e che poi effettivamente mantiene, fa. Una sorta di miracolo, considerati i voltagabbana di cui in Italia siamo tristemente esperti. Stop all’immigrazione clandestina incontrollata, legge e ordine in generale, dazi e produzione industriale, aborto immediato di tutte le follie green e gender, disimpegno in Ucraina.
Trump è disposto a parlare con tutti, come ha abbondantemente dimostrato nel corso del suo primo mandato nella triplice occasione di incontro con il leader nordcoreano Kim Jong-un, e dunque anche con Putin, naturalmente. Ma non è più disposto a muoversi in direzioni che non convengano, politicamente ed economicamente, al popolo americano. Come giudico tutto questo? Non importa come lo giudico io. È esattamente ciò per cui i suoi elettori lo hanno votato. Quasi 80 milioni di cittadini statunitensi, un’enormità storica, dalle urne ai fatti, eccola la democrazia. Quindi va bene, va benissimo così.
D – L’idea di Trump sulla deportazione di massa della popolazione di Gaza fa rabbrividire. Nasce in coerenza con le posizioni del tycoon, da sempre ultrasioniste, oppure è frutto di una sua particolare strategia di comunicazione, che potrebbe consistere nello spiazzare gli interlocutori con delle boutades per poi ripiegare su soluzioni più ragionevoli ma comunque funzionali ai suoi disegni?
R – Gaza è la vera spina nel fianco di questa presidenza. Contraddice il pragmatismo di Trump per una ragione molto semplice, che nelle mie trasmissioni avevo anticipato già da molti mesi: il potere politico, e soprattutto economico, della lobby israeliana lo tiene al guinzaglio, gli impedisce qualsiasi scenario di convenienza e persino di ragionevolezza e lo schiaccia su posizioni che, proprio in una chiave tecnica e di Diritto Internazionale, sono le posizioni di un autentico genocidio.
Difficile l’esercizio di distanziarsi da questo dramma, Trump è chiamato comunque a provarci, a porre un argine alle smanie di Netanyahu, per non passare alla Storia come l’ennesimo presidente Usa con le mani comunque sporche di sangue. 50mila morti civili sono un qualcosa di assolutamente inaccettabile per un qualsiasi Paese che possa anche soltanto lontanamente definirsi civile. Riguardo alle sue uscite mediatiche, temo non si tratti di “sparate”, e temo invece siano infarcite, tra mille interessi, degli interessi del genero Jared Kushner, ebreo e marito di Ivanka, tra gli immobiliaristi più ricchi e più potenti del mondo.
D – Nella nuova era Trump, quali spazi vedi per il ruolo della UE, ammesso che ce ne possano essere?
R – L’Unione Europea si è suicidata con una gestione a dir poco imbarazzante della guerra in Ucraina, e peggio ancora dei propri stessi interessi. Per dirla alla Trump, con parole di grande franchezza e di nessun politicamente corretto, a Trump dell’Unione Europea non gliene frega assolutamente nulla.
Raffaele Amato
Il 2diPicche lo puoi raggiungere
Attraverso la Community WhatsApp per commentare le notizie del giorno:
Unendoti al canale WhatsApp per non perdere neanche un articolo:
Preferisci Telegram? Nessun problema: