Il mondo delle dissacrazioni condivise, delle tradizioni infrante e delle identità centrifugate, propone un panorama particolarmente idoneo all’instaurazione delle forme più insidiose, striscianti e pervasive del totalitarismo, inteso quale moderna configurazione di un potere indipendente da superiori giustificazioni teologiche.
La sua raffinata versione contemporanea, traendo notevoli facilitazioni dal prevalere di un clima generalizzato di torpido conformismo e di timorosa rassegnazione, vale a smentire la parzialità delle conclusioni di quanti, in base ad interessate illazioni e a sbrigativi giudizi, ritengono di poter situare il fenomeno totalitario tra le vicende di un passato prossimo inesorabilmente concluso.
Donoso Cortes, che può considerarsi uno dei più insigni pensatori cattolici del XIX secolo, ha intelligentemente rilevato che il decorso involutivo delle strutture politiche moderne dipende dal rinnegamento dei principi immanenti alla rivelazione divina; sfatando le esorbitanti pretese di conferire alla ragione una piena autonomia conoscitiva e pratica, egli sostiene che i problemi politici, per essere adeguatamente compresi e risolti, esigono l’assunzione di una coerente visione teocentrica.
La verità di questa persuasione, sbeffeggiata in nome della scientifica irreversibilità del progresso e dei suoi portentosi traguardi, non soggiace ai ritmi del dinamismo della storia, predisposta, per la natura necessariamente relativa delle situazioni che vi si rispecchiano, a saggiarne e a verificarne puntualmente la perenne fondatezza.
Avendo perseguito l’arbitrario ridimensionamento della verità a mera costruzione soggettiva ed essendosi imposto come suprema norma giudicatrice della cultura umana, il conclamato antidogmatismo neoilluministico si è prudentemente sottratto al rischio di dover rendere ragione dei suoi assunti contraddittori, vantando, tra le sue benemerite acquisizioni, il naufragio del pensiero nei gorghi del relativismo e la degradazione della politica a bassa componente ausiliare del prepotere finanziario.

L’ Europa placidamente adagiatasi in uno stato di avanzata senescenza, pare aver esaurito ogni volontà di prevenire gli esiti infausti della sua rapida e verosimile eclissi.
Pur tuttavia, se una diagnosi realistica della situazione attuale non consente di abbandonarsi ad attese rassicuranti o a previsioni lusinghiere, la fiducia nella bontà degli inesplorabili disegni divini impedisce di dar credito alle sospette insinuazioni di chi, fidando nel predominio incontrastato del disordine, svia il discorso sull’identità culturale del vecchio continente in direzioni ingannevoli e tendenziose.
Sebbene l’interesse per questo tema soggiaccia alle impietose pressioni di un clima insano, caratterizzato da un diffuso cedimento alle mode di un presente senza storie e senza ideali, riaffiora non di rado il tentativo, perseguito da ambienti conservatori, di sovrapporre all’autentica eredità religiosa dell’Europa, connotazioni ad essa radicalmente estranee.
A ciò contribuisce la gratuita riduzione del complesso percorso storico dell’Occidente ad una confusa entità, che si pretenderebbe rimasta pressoché omogenea lungo il susseguirsi dei secoli Il riferimento al comune sfondo etnico, linguistico e geografico evocato dalla parola “Occidente”, non porge alcuna ragione probante per ritenere che il mondo euro-americano, emerso da orientamenti opposti ai principi spirituali e alle attuazioni civili dell’universalismo cristiano del medioevo, possa rappresentarne una sia pure generica o remota proiezione.
Il richiamo della destra conservatrice ai valori cristiani assume un carattere decisamente strumentale: il suo fine coincide con la neutralizzazione del loro fondamento religioso in una laicità promiscua, che condanna lo spirito a vegetare nell’aridità degli indici della produzione industriale e delle quotazioni di borsa.
Le “radici cristiane”, deputate dal mondialismo a figurare in una galleria di relitti archeologici, sono sottoposte alla contaminazione di oscure propaggini oltre atlantiche e medio orientali: in esse opera con perfetta sincronicità la virulenta mistura dell’Occidente americanizzato e del messianismo talmudico.
Gli intricati nodi teologici da cui le implicazioni politiche sopra indicate direttamente discendono, sono inscritte nell’innegabile discontinuità che la Dichiarazione conciliare Nostra aetate ha posto riguardo al rapporto tra la Chiesa e il popolo ebraico.
A tale proposito, va chiarito come neppure la più scaltrita abilità ermeneutica potrebbe validamente eludere la contraddizione oggettiva tra l’ebraismo, che ha riconosciuto nella suprema espiazione di Gesù l’adempimento delle promesse vetero -testamentarie, e la sua prevalente antitesi che lo ha ripudiato in ottemperanza ad una prassi legalistica e settaria.
Accantonando questa fondamentale distinzione, ben presente in tutta la Tradizione apostolica (a dispetto delle pluridecennali reticenze di troppi uomini di Chiesa), si diviene complici dei poteri che, nel segno dell’atlantismo e del sionismo, soggiogano l’Europa e precludono la riscoperta della sua vera civiltà.
Paolo Rizza
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