L’accordo siglato ieri da Ursula von der Leyen con gli Stati Uniti in materia di dazi rappresenta un nuovo passo nell’asservimento sistemico dell’Unione Europea agli interessi di Washington. Ma, come da copione, è l’Italia a trovarsi nella posizione peggiore: quella del contribuente silente, dell’esecutore muto, del vaso di coccio tra vasi di ferro.
Tecnicamente, l’intesa dovrebbe “normalizzare” i rapporti commerciali transatlantici nel settore dell’acciaio e dell’alluminio, in cambio di concessioni europee che riguardano standard ambientali, produzione strategica e partecipazione alle supply chain militari. Ma grattando la patina diplomatica, si delinea un’evidente asimmetria: gli Stati Uniti preservano i propri interessi industriali, la Germania ne riconverte il sistema produttivo a spese degli altri, e la Francia ottiene in cambio spazio politico e contratti energetici.
L’Italia
L’Italia? Resta spettatrice obbligata, zavorrata da un sistema produttivo medio-piccolo che non ha né protezione né voce. Il nodo più grave non è economico, ma politico. Da mesi l’Italia è sottoposta a un doppio diktat: aumentare la spesa militare per allinearsi agli standard NATO (cioè sostenere la corsa al riarmo tedesco con denaro italiano) e rifornirsi di energia statunitense, abbandonando definitivamente i canali russi, notoriamente più vantaggiosi in termini di costo e continuità.
Si tratta di miliardi che escono dal bilancio italiano per finanziare un doppio interesse: quello americano (energetico e militare) e quello tedesco (industriale e strategico). Una classe dirigente minimamente attenta all’interesse nazionale avrebbe perlomeno chiesto garanzie, contro bilanciamenti, margini di flessibilità. Invece, il governo italiano si è limitato, ancora una volta, ad approvare in silenzio, fingendo un consenso che nei fatti non esiste. E perché il popolo non si accorga di questi processi devastanti, si alimenta quotidianamente il caos interno.
L’immigrazione incontrollata, di cui nessuno osa più parlare senza essere tacciato di eresia ideologica, è diventata la valvola di sfogo del sistema.
Riempire le città di disagio sociale e tensione etnica non è solo effetto collaterale: è strategia. Il cittadino medio è costretto a preoccuparsi quotidianamente della propria sicurezza, della gestione dei servizi sanitari ormai al collasso, del degrado urbano che esplode nei quartieri. La sanità pubblica è tornata a essere un lusso, la scuola statale un campo di battaglia, i servizi locali un deserto.
Parola d’ordine: arrangiati
Il collante statale è stato sostituito dalla sopravvivenza individuale. Così la politica si garantisce l’impunità: mentre il cittadino si arrabatta con problemi immediati e drammatici, i grandi affari internazionali passano sottotraccia, mai discussi, mai spiegati, mai messi in discussione. A Roma non si fa politica estera: si eseguono ordini. Né Palazzo Chigi né la Farnesina hanno espresso alcuna riserva sull’accordo, né hanno posto la questione dell’impatto specifico sull’apparato produttivo italiano.
Peggio ancora: si accetta tacitamente che l’Italia debba sostenere, attraverso fondi UE e impegni NATO, la transizione tedesca da potenza economica a potenza bellica, sacrificando nel contempo ogni possibilità di autonomia energetica, industriale e diplomatica. Il tutto mentre le PMI italiane, già in crisi per inflazione e accesso al credito, vengono lasciate sole a fronteggiare la concorrenza globale senza alcun vero sostegno strategico.
Nessuna visione, nessun piano industriale nazionale. Solo comunicati stampa, slogan atlantisti e viaggi inutili a Bruxelles e Washington.
Lo schema: essere subalterni?
Lo schema è sempre lo stesso: da una parte una superpotenza (gli USA) che impone condizioni, dall’altra una burocrazia continentale (l’UE) che le ratifica, e nel mezzo governi subalterni come quello italiano che ne attuano gli effetti senza discutere.
È il meccanismo tipico di ogni rapporto coloniale moderno: lo sfruttamento avviene tramite vincoli economici, imposizioni normative e asimmetrie strutturali, non con i fucili.
Ma il risultato è lo stesso: la marginalizzazione delle economie periferiche, la compressione della sovranità nazionale e il saccheggio programmato delle risorse strategiche.
Se l’Italia continuerà ad accettare questo ruolo, tra dieci anni non resterà che una piattaforma logistica a basso costo, asservita a interessi altrui, con una sovranità ridotta a cerimoniale.
Le scelte di oggi non sono neutrali: stanno costruendo un futuro in cui l’Italia non decide nulla, non produce nulla, non conta nulla.
Ma guai a dirlo, perché la politica italiana, tutta presa dai selfie e dagli equilibri interni, non ha più né il coraggio né la dignità di alzare la voce.
Altro che patriottismo: quello che oggi ci governa è un gruppo di funzionari dell’altrui volontà.
E il conto, come sempre, lo pagano i cittadini italiani.
Gianluca Mingardi
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