Consideriamo alcuni fatti più o meno recenti. Il Senato italiano ha approvato all’unanimità, il 23 luglio 2025, il disegno di legge che introduce il reato di “femminicidio”, punendolo con l’ergastolo. Il provvedimento era stato approvato all’unanimità anche in commissione. Il disegno di legge è ora passato alla Camera dei Deputati per l’approvazione definitiva.
Nell’acclamazione rumorosa ed esaltata dei politici di ogni schieramento e dei media mainstream, sono state poche (e sommerse) le voci di coloro che hanno sottolineato la mostruosità, l’aberrazione etica ancor prima che giuridica di tale legge che, di fatto, introduce pene differenti a seconda che la vittima sia un uomo o una donna. Roberto Pecchioli, ben noto ai nostri lettori, ha sottolineato: “l’obbrobrio giuridico, ideologico e culturale in nome del quale l’omicidio è più grave se la vittima è una donna”.
Così il giurista e accademico Daniele Trabucco: “Dunque le vite umane non sono uguali davanti alla legge. Se infatti la vita umana è il bene giuridico protetto dalla norma penale, ma la pena per l’uomo che uccide una donna è più grave della pena per la donna che uccide un uomo, ne deriva, logicamente e oggettivamente, che la vita di un uomo è un bene giuridico che vale meno della vita di una donna”. Sarà quasi automatico, per gli avvocati difensori, sollevare il vizio dell’anticostituzionalità di questa norma.
Tuttavia ciò che colpisce in questa decisione dei nostri senatori è l’unanimità totale con cui il provvedimento è stato approvato, da un consesso peraltro in cui la maggioranza dei membri appartiene politicamente di centrodestra. Nessuno si è ribellato, nessuno ha sollevato dubbi. Una sottomissione totale, addirittura entusiasta, al sistema ideologico e persino lessicale della sinistra, che impone i suoi falsificanti termini, come “femminicidio”, appunto, oppure “sessismo”, “patriarcato”, “maschilismo” e così via. Una sottomissione volenterosa, soddisfatta e compiaciuta alla più feroce egemonia culturale, nel caso di specie rappresentato dal più becero, ideologico e pervertente femminismo. Non solo una “destra” che si arrende all’egemonia, ma che addirittura introietta e fa propri i disvalori dell’avversario. E’ possibile fare peggio di così?
Se non peggio, certamente a pari merito per ignominia, è stata l’eliminazione, senza alcuna spiegazione o giustificazione, di Marcello Foa dalla Rai e da un suo seguitissimo programma radiofonico “Giù la maschera”. Marcello Foa, ottimo giornalista, già presidente della Rai di nomina centrodestra, spirito non conformista, è stato anche autore di testi come Il sistema (in)visibile. Perché non siamo padroni del nostro destino e ancora Gli stregoni della notizia e Gli stregoni della notizia atto secondo. Il suo programma radiofonico ha avuto il coraggio di parlare, andando controcorrente rispetto alla informazione mainstream drogata e spesso menzognera, di Ucraina, Covid, Gaza, del generale Vannacci, dell’obbrobrioso annullamento (su ordine di Bruxelles e della Nato?) delle elezioni in Romania.
Pensatore libero, vicino a una destra culturale non conforme, attento all’area del dissenso, ma al contempo aperto e libero: alle sue trasmissioni partecipavano stabilmente intellettuali certamente non di destra come il giornalista Peter Gomez e il sociologo Luca Ricolfi. “Foa silurato perché contro le élite” ha chiosato Carlo Freccero, e così l’egualmente silenziato Luca Ricolfi: “Rimossi perché abbiamo affrontato i tabù”. E come non concordare con il critico televisivo Maurizio Caverzan: “La chiamano RadioMeloni. Ma FdI e Lega sono riuscite a cancellare uno dei programmi più liberi e indipendenti della Rai. Elly Schlein non avrebbe potuto fare di meglio”.
Al contempo nulla è stato fatto per liberare la Rai (“Macché TeleMeloni, la Rai è piena di woke” ha denunciato l’esperto ed ex consigliere dell’azienda Alberto Contri) dalla pesantissima occupazione della sinistra che impone trasmissioni e soprattutto un’informazione impestate dal più bieco antifascismo che raggiunge il suo apice con Rai3, le sue trasmissioni di falsificazione storica, le sue recensioni librarie esclusivamente di testi di sinistra, la copertura assolutamente di parte dei fatti politici e di cronaca.
L’informazione sul conflitto russo-ucraino, ad esempio, sulle sue cause e sul suo svolgersi è furiosamente faziosa, gli “inviati” sul fronte sono esclusivamente “embedded” nel versante ucraino. Nulla sappiamo di cosa succede nel fronte russo, soprattutto in quelle zone russofone, russofile o semplicemente russe del Donbass, e non solo, liberate dall’esercito di Mosca dopo che quella popolazione aveva rischiato lo sterminio per gli attacchi aerei e di artiglieria ucraini: dal 2014, anno d’inizio dell’aggressione di Kiev al Donbass sono state più di 14.000 le vittimi civili massacrate perché volevano solo continuare a essere russe, a parlare russo, ad avere scuole russe.
Sono quasi tre anni che il governo Meloni, di presunta destra, è in carica, ma la Rai rimane una casamatta saldamente in mano alla sinistra se non all’ultrasinistra. Avete visto una sola trasmissione – storica o di cultura – di destra, di vera destra? Avete visto testi di destra recensiti con una certa continuità? Avete visto la produzione e la messa in onda di fiction di destra (vera), anziché le solite immangiabili pappine di propaganda antifasciste, antirazziste, immigrazioniste, femministe, trans-omosessualiste? Avete visto un’informazione inspirata certo alla verità ma anche a una “visione del mondo” di destra?
Parliamo di cinematografia e della Mostra del cinema di Venezia, nata nel 1932 su iniziativa dell’infausto regime (”Il cinema è l’arma più forte” diceva il Duce), con passerella di elegantissimi attori, star e starlette, registi, cinematografari di varia taglia e natura, intellettuali noti e meno noti. Tutti inequivocabilmente di sinistra, antifascisti, impegnati appassionatamente di tutte le cause mondiali alla moda. Ovviamente politicamente corretti anche i film, quelli in concorso, fuori concorso e vincitori.
Eppure il Presidente della Biennale di Venezia, di cui la Mostra è un’emanazione, è da qualche anno l’intellettuale di destra Pietrangelo Buttafuoco, raffinato nella cultura, nel pensiero, nella scrittura (lo è davvero), nei modi (compitissimi i suoi baciamani sul red carpet), ambiguamente fascista (tale si definì in passato), ambiguamente musulmano (si definisce “saraceno”). Una certa influenza dovrebbe averla. Eppure, non vediamo alcun risultato nella produzione cinematografica, totalitariamente e arrogantemente dominata dalla sinistra. Ma Buttafuoco vola alto: intervistato dal Corriere, alla domanda “Quest’anno alla Mostra ci saranno Sorrentino, Bellocchio, Guadagnino, Gianfranco Rosi. E la destra dov’è?”, così risponde, con elusiva ironia: “E’ riduttivo parlare di destra e sinistra. Persino fuori luogo, se non fuori tempo massimo”.
Capita anche in quest’ambito quello che è capitato in Rai: la “destra” di governo nomina i vertici delle istituzioni, ma nei risultati non cambia niente. E riguardo al cinema, come non concordare con l’intellettuale non-conforme, e cinefilo, Marco Tarchi: “Uno come me, che ogni anno vede circa duecento film in sala, con preferenza per quelli definiti “d’essai”, sa bene che un’enorme percentuale delle pellicole prodotte veicola ed esalta valori, credenze e opinioni di segno progressista e ridicolizza tutto ciò che vi si oppone”.
A destra, c’è stato il timido tentativo di Albatross, il film che racconta della vita di Almerigo Grilz, militante e dirigente del Fronte della Gioventù di Trieste, che fondò, con Fausto Biloslavo e Gian Micalessin, un’agenzia giornalistica chiamata, appunto, Albatross, specializzata in reportage da teatri di guerra e che cadde in Mozambico mentre documentava gli scontri tra le truppe regolari e i guerriglieri comunisti. Film ovviamente stroncato dalla critica di sinistra per evidenti motivi ideologici e boicottato dalla distribuzione: pochissima pubblicità, passato in pochi cinema per pochi giorni. Risulta a chi scrive che non sia ancora disponibile per la visione in streaming, nonostante il tempo trascorso dall’uscita.
Parliamo di libri, di case editrici. Anche in questo caso, il mainstream è di sinistra. E così la stragrande maggioranza dei libri pubblicati. Mondadori, che comprende anche la Rizzoli, di proprietà di Fininvest, cioè della famiglia Berlusconi, ha in catalogo pochissimi libri riconducibili, sia pure vagamente, all’area di destra. Nel catalogo di Adelphi troviamo testi riconoscibili come appartenenti a una cultura di destra “alta”, che potremmo definire estetizzante, aristocratica ed esoterica (Maurizio Blondet, anni fa, nel suo libro Adelphi della dissoluzione, accusò di “gnosticismo”, con qualche ragione, il fondatore della casa editrice Roberto Calasso). Però, oggettivamente, è grazie ad Adelphi se oggi abbiamo nelle nostre librerie le opere “antimoderne” di Pavel Florenskij, Cristina Campo, Nicolás Gómez Dávila, Germinello Alvi, René Guénon.
Sul versante cattolico-conservatore resiste Ares, con un buon catalogo che comprende anche una collana meritevole di elogio: Poundiana, dedicata al grande poeta americano, diretta dal bravo Luca Gallesi.
Per il resto, nei comitati editoriali delle grandi case editrici, nel circolo chiuso dei critici letterari che contano, nei responsabili delle pagine culturali dei giornali liberal-borghesi, la presa rapace dell’egemonia culturale è totalitaria. Si è arrivati al punto che Bompiani, che sfortunatamente ha ereditato il bel catalogo della Rusconi, ha commissionato qualche anno fa una nuova traduzione de Il Signore degli Anelli, perché quella originaria, e geniale, di una allora giovanissima Vittoria Alliata di Villafranca, lodata dallo stesso J.R.R. Tolkien, è stata ritenuta “troppo epica”. Scelta ovviamente contestata dai tolkieniani di tutta Italia.
Da segnalare invece una certa ripresa dell’editoria di destra/destra con case editrici, nuove e non nuove, come Il Cerchio, Passaggio al bosco, Oaks, Ritter, Settimo Sigillo, Cinabro, AGA, Altaforte, Solfanelli, Eclettica, Idrovolante, Maniero del Mirto, L’Arco e la Corte, Ferrogallico, con i suoi fumetti, Giubilei Regnani (su un versante più nazional-conservatore) e altre. Troviamo anche una rinnovata, raffinata Settecolori (titolo di un romanzo di Brasillach), fondata negli anni settanta da Pino Grillo e rilanciata dal figlio Manuel assieme a Stenio Solinas. Una sorta di Adelphi di destra, graficamente elegante, attenta alla grande scrittura del Novecento, spesso ignorata, per conformismo culturale, da altre case editrici.
Tuttavia questa editoria “non conforme”, seppur vitale e fornitrice di testi stimolanti e liberatori, rimane al margine, per la feroce conventio ad excludendum dell’egemonia culturale della sinistra, dei circuiti culturali che contano: recensioni dei grandi giornali, segnalazioni e comparsate televisive, premi letterari. Proprio i premi letterari, quelli più noti, sono una prova inequivocabile della dittatura gauchista nel mondo dei libri: trovatemi un libro, un romanzo ispirato a valori non di sinistra (per stare larghi), finalista o vincitore a uno dei grandi premi nazionali: Strega, Bancarella, Campiello o altri.
Il vincitore dello Strega, ad esempio, è L’ anniversario di Andrea Bajani, uno scrittore il cui merito maggiore è quello di aver lasciato l’Italia per andare a insegnare “scrittura creativa” in un’università texana: il libro è un attacco frontale alla famiglia naturale. Indovinate qual è la casa editrice vincitrice: esatto, avete indovinato, è Feltrinelli. Sul meccanismo che governa il premio Strega, ma possiamo dire tranquillamente anche gli altri, come non dare torto a Francesco Borgonovo: “Ora, per chi non lo sapesse, lo Strega è una sorta di guerra per bande in cui ogni anno i p.r. dei vari marchi editoriali cercano di convincere questo o quello scrittore a votare per il loro campione. Ci sono scambi di voti, accordi sottobanco, meschinità da congresso di partito della prima Repubblica”.
Anche i premi minori sono monopolizzati dalla sinistra: ad esempio Dario Franceschini, sempre lui, onnipresente, ha vinto il Premio Parco Maiella con un libro Aqua e Tera: una storia tra due lesbiche, con contorno di antifascismo e dell’immancabile, immarcescibile Resistenza. Poi, a dimostrazione che l’egemonia culturale della sinistra nei premi letterari non si limita a quelli italiani, a vincere il Premio Nobel per la letteratura, quello che mai venne assegnato a Pound o a Borges per motivi politici, è tale ungherese, sconosciutissimo e dal cognome impronunciabile, László Krasznahorkai, il cui merito artistico pare essere quello di essere un fiero avversario di Orban e fuoriuscito dall’Ungheria per questo.
Altro esempio: un bravissimo direttore d’orchestra, dalla prodigiosa carriera nazionale e soprattutto internazionale, una giovane emergente e talentuosa, Beatrice Venezi, viene legittimamente e meritatamente nominata dal Sovraintendente direttore musicale del Teatro La Fenice di Venezia. Ma c’è un problema: Beatrice Venezi è inequivocabilmente di destra, senza tentennamenti o abiure. E allora scatta la canea antifascista: i sindacati degli orchestrali – che proclamano uno sciopero politico – gli intellettuali asserviti, persino (ma non ci sono prove) alcuni abbonati al teatro iniziano a ululare: e, si badi bene, protestano ipocritamente non perché il direttore è di destra: no, l’attaccano tentando di svilire il suo curriculum che, come fatto osservare da diversi critici musicale, è decisamente eccezionale considerato la giovanissima età (35 anni) per quel ruolo.
Un’aggressione vile e ipocrita, come si è detto, ben rappresentativa del modus operandi brutalmente censorio del mondo antifascista. Una “campagna di linciaggio e denigrazione” l’ha efficacemente definita Marcello Veneziani. Ebbene: avete sentito un solo esponente del governo, un rappresentante del partito di maggioranza, sarebbe bastato un modesto (con tutto il rispetto) consigliere comunale o municipale, protestare contro questa farisaica conventio ad excludendum contro una bravissima musicista, colpevole di essere impenitentemente fuori dal coro dell’egemonia culturale della sinistra? Il Sindaco di Venezia, in quota centrodestra, ha assunto un’ambigua posizione mediatrice. Nessuno ha difeso Beatrice Venezi, nessuno ha stigmatizzato con la dovuta forza l’odio ideologico degli antifascisti. Una sottomissione culturale che ben rappresenta l’incapacità congenita della destra di costruire una contro-egemonia.
Abbiamo poi un Ministro della Cultura, già Fronte della Gioventù, già extraparlamentare in Meridiano Zero, già evoliano, dalla prosa aulica, involuta e barocca, che si è riciclato in un appassionato antifascismo: nel suo recente libro su Gramsci, scrive: “il giudizio politico sul tragico e nefasto esperimento fascista non si presta a tante sfumature. E’ negativo, punto e basta.” Se la “riconquista culturale” è in queste mani, stiamo freschi. Proprio costui ha stanziato 30 milioni per l’acquisto di libri per le biblioteche pubbliche. Ma lui, ex evoliano, ha mai provato a chiedere un testo di Evola a una biblioteca pubblica? Provate a chiedere alla vostra biblioteca di quartiere per verificare.
Quando un soggetto, nel nostro caso la destra parlamentare e di governo, non riesce a compiere ciò che ci saremmo aspettati, dobbiamo chiederci se ciò avviene perché non può, perché non vuole o perché non sa. Nel nostro caso sono vere tutte e tre le ipotesi. Certo, almeno in parte, non può (ma potrebbe provarci) perché la potenza e la totalitaria invasività del deep state culturale in mano alla sinistra rende difficile (ma non impossibile) la creazione di una contro-egemonia. In parte non vuole, perché è attanagliata, da Fiuggi in avanti, da un “piacionismo” accattone: vuole essere accettata a tutti i costi dalla buona società politica; giura, col cappello in mano: “anche noi amiamo la Costituzione come la mamma”.
E’ afflitta da tempo dal complesso del Brutto Anatroccolo che, Marco Tarchi ci perdoni, è il vero “mito incapacitante” della destra di oggi. E sicuramente non sa: a destra si legge poco e male, non si studia, non ci si sforza di leggere la contemporaneità, si è afflitti da pigrizia intellettuale, si preferisce il piccolo cabotaggio politico tra prudenti riforme, sbandamenti euro-atlantici russofobici e filo-sionisti all’investimento culturale per la conquista del futuro. Una vecchia professoressa direbbe: “potrebbe fare, ma non s’impegna”. Per conquistare stabilmente le famose casematte gramsciane della cultura, occorrerebbero centri studi, think tank, centri di ricerca, fondazioni, associazioni culturali vere. Dove sono?
Eppure, se si tolgono lustrini e paillettes, lo stato della cultura di sinistra è oggi, e non solo in Italia, assai miserabile. Non più grandi miti mobilitanti le masse, non più grandi idee, non più grandi autori (l’ultimo è stato Umberto Eco e prima di lui Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini). La sinistra intellettuale striscia in basso tra terrorismo ecologista, pervertimenti trans-omosessualisti e genderisti, wokismo decostruzionista e decivilizzante, piagnistei antifascisti e antirazzisti e il femminismo cretinetti del “tutte e tutti, cittadine e cittadini”. Ha ragione il filosofo Stefano Zecchi quando afferma: “di sinistra non è la cultura, ma il potere culturale”. Sarebbe il momento buono per una controffensiva culturale di vera destra. Ma l’orizzonte rimane vuoto.
La giornalista Annalisa Terranova, che di destra e di cultura se ne intende, così ammonisce: a destra “non si fa rete, non si costituiscono solide sinergie tra intellettuali, scrittori, case editrici, circoli, festival culturali. Gli archivi migliori per la storia del dopoguerra, come l’archivio di Giorgio Pisanò, rischiano di andare perduti. E la convegnistica è ben lontana dall’eguagliare le giornate di studi della Fondazione Volpe degli anni ‘70”.
Riusciranno i nostri eroi a ritrovare la cultura smarrita e riuscire a “riveder le stelle”?
Antonio de Felip