Sono nato negli anni Sessanta, in un’Italia che aveva ancora radici solide.
Il mio quartiere popolare era povero, ma funzionava: famiglie di operai che vivevano di fatica e rispetto reciproco, bambini che giocavano per strada senza paura, scuole ampie e piene di vita, negozi che resistevano e crescevano con la comunità.
Perfino il medico di famiglia era parte di quella realtà: conosceva tutti, entrava nelle case, curava senza fretta, e a Natale riceveva una scatola di cioccolatini come ringraziamento. Era un’Italia concreta, fatta di lavoro, di ordine e di fiducia.
Poi arrivò il cambiamento. Le prime migrazioni interne, quelle dal Sud. La maggioranza di quelle famiglie veniva per lavorare, e con il tempo si integrò, diventando parte del tessuto sociale.
Ma bastarono poche mele marce a corrodere il modello: violenti, ingestibili, soggetti che pretendevano di avere senza sudare, che non rispettavano né il luogo né le regole.
Da lì iniziarono le crepe: rapine, spaccio, droga, violenza, degrado. Non è stata una degenerazione spontanea: è stato un laboratorio sociale.
Esperimenti sociali
Qualcuno ha voluto che i quartieri popolari, che erano il cuore sano e compatto del Paese, venissero trasformati in ghetti, in campi di prova della dissoluzione. Prima l’arrivo di elementi destabilizzanti, poi il passo successivo: l’immigrazione di massa dall’estero, con comunità sempre più estranee alla nostra identità e difficili da integrare.
Ci hanno addestrato alla convivenza col degrado, ci hanno convinti che fosse “naturale” perdere sicurezza, decoro e identità. Il risultato oggi è sotto gli occhi di tutti: quartieri dove la legge è un optional, dove l’onesto è deriso e il furbo premiato, dove il commerciante chiude e lo spacciatore prospera, dove la scuola non educa più ma si limita a contenere.
La Civiltà e l’ordine pubblico
Una società spaccata non più in classi sociali, ma in caste: da un lato una minoranza di privilegiati che detta le regole, dall’altro una massa sradicata di poveri – autoctoni e stranieri insieme – senza voce e senza difese.
Eppure la verità è semplice: non esiste comunità senza regole. Il bene nasce solo dove le persone si rispettano, rispettano il luogo in cui vivono, le tradizioni che lo hanno fondato e le leggi che lo tengono in piedi.
Tutto il resto è resa. E qui sta l’inganno più grande: chi accetta supinamente questo stato di cose, senza ribellarsi, senza nemmeno alzare la voce, non è soltanto una vittima. È allo stesso tempo complice e carnefice.
Perché ogni silenzio diventa consenso, ogni indifferenza diventa legittimazione.
Così la catena del degrado si rafforza, e chi subisce finisce per alimentare ciò che lo distrugge. È questa la tragedia più amara: vedere un popolo che, invece di ribellarsi, partecipa alla propria cancellazione.
Gianluca Mingardi
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