Leggere Niccolò Machiavelli (Firenze, 3 maggio 1469 – Firenze, 21 giugno 1527), come qualsiasi altro autore, non significa sposarne le idee. Al contrario, è utile comprendere se abbia o meno fondatezza ciò che scrive e se le idee conseguenti siano compatibili con la nostra formazione.
È un po’ come votare un partito politico, in democrazia rappresentativa. Non significa sposarlo o accettarne tutte le idee e azioni. Ritenerlo “chiesa”, “caserma” e “famiglia” è tipico della scuola del Partito Comunista Italiano, che in questa maniera creò l’apparato burocratico più forte del Paese. Dogmatico perché “chiesa”, di ferrea obbedienza perché “caserma” e filiale fedeltà perché “famiglia”.
Considerarlo semplicemente come un’associazione di diritto privato in cui si trova un po’ di tutto aiuterebbe a discernere, volta per volta, il male minore o, più raramente, il bene maggiore, cui dare un po’ della nostra fiducia per realizzare qualcosa o frenare un pericolo.
Il cattolico serio sa comprendere la natura umana e i suoi difetti, così come conosce la questione morale e la Sovversione che, dal crollo del Sacro Romano Impero, cerca di imporsi sull’Ordine divino e naturale. E dovrebbe capire, anche leggendo “Il Principe” di Machiavelli, quanto l’Aventino faccia rima con un aggettivo non proprio carino, mentre il potere se la ride di fronte alla scelta volontaria di farsi da parte.
Gesù Cristo insegna: “ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque scaltri come i serpenti e semplici come le colombe. Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani”. (Mt, 10, 16-18)
Indro Montanelli, che non era cattolico e men che meno democristiano, intuì che, in un determinato contesto politico critico e difficile, era più scaltro “turarsi il naso e votare D.C.”, piuttosto che concedere potere alla sinistra, quindi alla sua ideologia sovversiva ed intrinsecamente perversa. Date la decadenza attuale, le “poli-crisi” e il mainstream ultra-liberal, riteniamo peggiorato questo nostro tempo e quindi attualissima l’intuizione di Montanelli.
Antonio Gramsci elaborò il concetto di egemonia, secondo il quale le classi dominanti impongono i propri valori politici, intellettuali e morali alla società, con l’obiettivo di saldare e gestire il potere intorno a un senso comune condiviso da tutte le classi sociali, soprattutto quelle subalterne. Rispetto ad altre amenità del suo pensiero, è difficile dargli torto su questo discorso.
Certa critica, invece, preferisce sempre gettare il bambino con l’acqua sporca, perché è sempre più facile e comodo rigettare e bollare, se lo scopo è indottrinare o darsi degli alibi. Più impegnativo è insegnare a pensare, approfondire, capire, soprattutto circostanziare le affermazioni, perché spesso si tende a generalizzare o a sbagliare solo perché non si fa l’esercizio di contestualizzazione della realtà. Eppure, l’italiano è una lingua meravigliosa perché riesce, se utilizzata correttamente, a fornire tutti gli strumenti necessari. La rinuncia all’Azione, retta dal Pensiero forte, è una forma ignobile di viltà, simile a quella di chi sotterra i Talenti ricevuti.
Va aggiunto che, una sorta di “indice” dei testi avrebbe, ancora, un senso, nella post-modernità, laddove il lettore medio non abbia ancora, nonostante tutti gli apparenti sforzi dei salotti radical chic di distribuire cultura, le minime potenzialità di un retto discernimento, a causa, appunto, dell’ignoranza, del narcisismo, dell’orgoglio e della presunzione, per cui scritti non ortodossi sulle questioni principali della vita potrebbero indurlo su cattive strade.
Tornando a “Il Principe” di Machiavelli, possiamo affermare che, nell’insieme, è un demone che ha contaminato la politica con la sua visione cinica, pessimista, atea, opportunista e priva di principi assoluti. Chi vuole capire le vere dinamiche del potere moderno e non ha letto “Il Principe” di Machiavelli non avrà mai gli anticorpi necessari per sapere di cosa si parli, così da riconoscere un nemico, prevenirne le mosse, togliersi i dubbi sulle motivazioni di molte scelte.
Perciò, chi ne ha i mezzi intellettivi e la preparazione (l’esperienza pratica e costante è sempre fondamentale), lo legga alla luce di ciò che di vero esprime, al fine di evitare di capire fischi per fiaschi o di essere così estraneo alle dinamiche del potere, da cadere in forme sciocche di complottismo, o nel cretinismo di analisi funzionali al Sistema più nefando.
Con “Il Principe” entriamo nel cuore nero della politica, nel ventre molle del potere, in una giungla di spietati che lavorano per “uccidere” gli ingenui. Nella realpolitik non esistono anime belle né illusioni, né sogni ad occhi aperti o favole da famiglia del Mulino Bianco. Le buone maniere, laddove esistano, sono solo figlie di una opportunistica ipocrisia. Tutto è una lotta per la sopravvivenza, che non prevede morale né esclude colpi bassi. Non c’è rispetto, se non nella propaganda, perché è sempre una guerra per chi arriva primo. Il fine giustifica i mezzi e chi non se la sente di far parte del gioco al massacro, ne viene espulso o si autoelimina.
Chi non lo capisce, rimane schiacciato nell’ irrilevanza della frustrante quotidianità di critico senza rappresentanza, sia esso un politico o un elettore. E’ giusto? Assolutamente no. E’ così? Assolutamente sì. Machiavelli fu un profeta di sventura, che capì quanto margine all’ “homo homini lupus” e all’annullamento di ogni concezione verticale e di ogni idea producesse la smania di potere, che noi vediamo come un difetto del genere umano da combattere, mentre lui lo constatava e, almeno a tratti, se ne crogiolava, facendo quello che aveva capito tutto.
Al contrario di Machiavelli e della modernità, al tradizionalista piace la Politica come la intendevano Platone, Aristotele e i grandi classici del pensiero romano quali Cicerone. Ossia un’arte, che non è per tutti, cui chi emerge arriva con adeguato “cursus honorum”, ove applicare la capacità di governare o amministrare, ovvero applicare il pensiero alla vita quotidiana per il bene comune della propria comunità di destino.
San Tommaso d’Aquino, dimostrando la piena compatibilità tra Fede e Ragione, ha perfezionato il modello ideale, codificando che la sovranità appartiene a Dio e ogni Autorità deriva da Lui per il raggiungimento di una Città equa per tutti, fondata su principi eterni condivisi in un ordine gerarchico, armonizzato tra Potere Spirituale affidato alla Chiesa Cattolica e Potere Temporale al laicato più nobile sulla piazza, che riceve dal Papa il compito di comandare secondo giustizia.
Filosofi e teologi non trovano più spazio nella politica contemporanea, a causa, da un lato della cultura protestante che ha fatto proprio il pensiero di Machiavelli e dall’altro della prassi social-comunista e liberale, che hanno demolito il principio di autorità, di identità e, con la distopia, anche quello di non contraddizione.
La secolarizzazione dei due grandi Poteri ha come conseguenza la decadenza, il nichilismo, il soggettivismo, l’egualitarismo, il mito del buon selvaggio, la società fluida e a-morale, il globalismo iper-liberista, la cancellazione dei confini, il ribaltamento tra bene e male, la rinuncia al Trono sostituito da assemblee relativiste e all’Altare, sostituito dalla tavola da pranzo, il primato della logica del profitto sulla politica.
La post-modernità è una rincorsa al ribasso, perché domina il rifiuto di tutto ciò che è Alto, bello, oggettivo, impegnativo, responsabile, dovere, sacrificio, onore, fierezza, patriottismo, libertà. Machiavelli, miscredente, pragmatico e fine osservatore, approfitta della Civitas Christiana morente sotto attacco del razionalismo umanista, per mettere un epitaffio su quella concezione della Politica, che riduce con la “p” minuscola poiché non è un giardino in cui si cercano di coltivare le rose, come si sforzavano di fare i classici e i Cristiani, ma una fredda steppa, senz’anima.
Scrive Vittorio Feltri nei confronti di Machiavelli, nel suo bellissimo libro “Chi non legge è perduto” (ed. Mondadori, 2025): “La realtà gli pare notevolmente diversa rispetto ai resoconti che legge nei trattati di politica del suo tempo. A lui sembra qualcosa di molto più semplice e più brutale, una faccenda fatta di uomini che vogliono comandare su altri uomini. Inutile farsi troppe illusioni, una specie di inevitabile guerra permanente”. Poiché figlia delle peggiori pulsioni umane, da quel momento la politica non sarà più come prima, divenendo una disciplina autonoma e indipendente dalla morale e dalla religione, ma soltanto dalla capacità di agire in modo efficace, di incidere sui destini del mondo reale.
Feltri prosegue dicendo che Machiavelli “parte dal presupposto che l’uomo è naturalmente egoista, ingrato, falso, volubile, amante del rischio solo quando gli conviene. Insomma, non un bel soggetto con cui stringere accordi, stipulare patti, fare politica. Ed è proprio questo, secondo Machiavelli, il motivo per cui il Principe è costretto a restare sempre vigile, deve saper prevedere i tradimenti, e deve essere cinico e abile nell’usare la paura come strumento di governo. […] Basta guardare i nostri politici, spesso si atteggiano a paladini della bontà, amano mostrarsi con la faccia buona e sorridente, e intanto si rivelano incapaci di tenere insieme un governo senza litigare ogni due giorni”, persino sui media e anche durante la campagna elettorale.
Certo, osserva sempre il direttore editoriale de “Il Giornale”, “Machiavelli parla anche di virtù, ma toglietevi dalla testa che sia qualcosa che riguarda l’etica o la morale. Niente di tutto questo (sic! n.d.r.). La virtù machiavelliana è la capacità di agire con efficacia, di saper cogliere le occasioni, di saper essere spietati quando serve. E’ dunque la forza, l’intelligenza, la determinazione. Un Principe virtuoso non è un santo, e non può esserlo, ma un uomo che sa come si mantiene il potere, che sa quando è opportuno essere amato e quando invece è più conveniente essere fedele, quando va usata la forza e quando è meglio scegliere la diplomazia”.
La fortuna e la crudeltà sono altri due elementi che si trovano tra le capacità del Principe di Machiavelli di cogliere la prima e di utilizzare alla bisogna la seconda per mantenere il potere, che, in ultima analisi è sempre e comunque il fine, assieme alla ricchezza, perché non c’è potere senza denaro, ottenuto in qualsiasi modo, proprio per mantenere quel fine, per cui forse il leader italiano più machiavellico del secolo scorso, Giulio Andreotti, disse che “logora chi non ce l’ha”.
Altrettanto, aggiungeremmo noi, devasta chi lo perde, assieme a chi non ha veri ideali di soprannaturali ed eterni per cui vivere. Sì, perché, una volta morti, lasceremo qui tutto quel potere per cui troppi perdono la retta via, senza aver fatto nulla di realmente buono per cui essere ricordati e, soprattutto, ci presenteremo al Giudizio inappellabile di Colui che conosce prima di noi le nostre miserie, ma che ci ha indicato chiaramente i mezzi per meritare la salvezza o la dannazione, per sempre, non per qualche decennio di effimera gloria.
di Matteo Castagna